la Repubblica, 21 agosto 2016
I cent’anni di Yellowstone
È a una microscopica e micidiale creatura, al batterio della tubercolosi, che i Parchi nazionali americani devono la propria esistenza, divenuta legge nell’agosto di cent’anni or sono. Quando a un canadese emigrato nel Missouri, Galen Clark, fu diagnosticata la tubercolosi e i medici gli diedero poco da vivere, lui lasciò la moglie e l’umidità del Midwest e partì per la California per andare a morire – disse – nella magnificenza vergine del West. Si fermò tra le sequoie della Sierra Nevada e all’ombra di quelle gigantesche conifere, in attesa che la tubercolosi lo consumasse, cominciò a tempestare il Congresso, e il Presidente Lincoln, con petizioni per strappare quella foresta ai taglialegna e ai cercatori d’oro. E ci riuscì.
Nel 1864, mente a est infuriava la guerra civile e i campi si bagnavano di sangue, Lincoln firmò il decreto che proclamava intoccabile “per sempre” la Valle delle Sequoie. Era l’embrione di quello che sarebbe divenuto il sistema dei Parchi nazionali e che un altro presidente,Woodrow Wilson, avrebbe formalizzato per legge nel 1916.
Cento anni più tardi, il seme gettato tra le sequoia della California è diventato una nazione dentro la nazione, una strana e magnifica confederazione di parchi, laghi, foreste, praterie, monumenti, edifici che coprono un territorio di trecentonovantamila chilometri quadrati, più dell’Italia. E rappresenta il background, lo schermo, ma anche il protagonista celebrato dal cinema e dalla musica, sul quale viene proiettato il mito americano. È un patchwork cucito con la modestissima spesa pubblica di tre miliardi di dollari annui, quanto la Marina spende per un singolo cacciatorpediniere lanciamissile, tenuta insieme, rattoppata, accudita da un piccolo esercito di ventiduemila ranger professionisti, affiancati nei momenti di alta stagione da duecentomila volontari. Attratti da niente altro che dal desiderio di servire i visitatori e indossare per qualche mese il cappello a tesa larga verde oliva di Ranger Smith, il protagonista dei cartoni di Hanna e Barbera eternamente alle prese con l’Orso Yoghi e il suo complice Bubu. Per cinquantacinquemila euro lordi di paga annuale. Ma neppure un esercito di ducentocinquantamila uomini e donne in verde (disarmati a eccezione della Park Police, i ranger incaricati di far rispettare la legge) sarebbe sufficiente a tenere sotto controllo un territorio nel quale solo uno dei parchi, il Wrangell St.Elias, in Alaska, potrebbe tranquillamente inghiottire l’intera Svizzera senza rischiare l’indigestione. Né badare all’equivalente dell’intera popolazione americana, trecentocinque milioni di visitatori che ogni anno li invade in tutte le stagioni. A proteggere i ranger provvede certamente la legge federale che stabilisce la pena di morte per chi ne uccida uno, ma in cento anni è accaduto una sola volta (a assassinare il ranger fu un contrabbandiere di whisky sorpreso a trasportare merce illegale). E del resto in terre che brulicano di orsi, puma, serpenti velenosi, coyotes, alligatori, grandi rapaci e lupi nessuno dei trentatré caduti in servizio nella storia dei ranger è mai stato ucciso da un animale selvatico.
La spiegazione di questa sorprendente mansuetudine dell’animale più pericoloso, l’essere umano, in una nazione in cui la violenza a mano armata è quotidianità, sta forse nella definizione che Mark Twain, che si concesse tre giorni di campeggio solitario nello Yellowstone, in Wyoming, diede dei Parchi nazionali: “Sono per l’America quello che le grandi cattedrali sono per l’Europa”. Monumenti scavati non dagli attrezzi degli scalpellini e dalla fatica degli spaccapietre, ma dalla collaborazione fra il tempo, la natura e il popolo. Insieme con la skyline di Manhattan, la baia di San Francisco e il colonnato palladiano nel pronao della Casa Bianca niente altro dice “America!” con l’immediatezza di quelle meraviglie naturali che formano quella che una citazione attribuita a molti e ormai diventata proverbiale ha definito “la migliore idea che noi americani abbiamo mai avuto”. Il geyser di Yellowstone, l’Old Faithful che, fedelmente, sprizza a intervalli regolari dalla Terra come fosse controllato dai ranger, la vertiginosa ferita nel deserto dell’Arizona chiamata Grand Canyon, i monoliti della Monument Valley filmati da John Ford in territorio Navajo per le sue Ombre Rosse, la “Vergine della Nebbia” come è soprannominata la più impressionante delle cascate del Niagara, gridano “America!” con la stessa immedia- tezza con la quale la Grande Muraglia grida Cina o la cupola di San Pietro esclama Roma. Anche le lunghe strade dritte che i cavalieri del nulla a bordo delle loro Harley o i ribelli senza causa hanno percorso nella narrazione del mito americano sono, sempre, parte dei Parchi nazionali. Anche la Casa Bianca, insieme con la spianata del Mall divenuta celebre nel mondo con il Discorso del Sogno di Martin Luther King, anche la piantagione di George Washington o la piccola casa a Philadelphia dell’ingegnere militare polacco Taddeo Kosciuszko, che con Washington collaborò nella guerra d’Indipendenza, sono parte del National Park, così come tutti i simboli della nazione americana. È un portafoglio di quattrocentocinque “parchi”, con una responsabilità che si estende dalla protezione dei bisonti all’impianto elettrico della casa dell’ingegnere polacco, dai campi di battaglia alla carcassa della corazzata Arizona affondata a Pearl Harbor. Sotto la cupola del ministero degli Affari interni, che negli Stati Uniti non ha compiti di polizia o sicurezza, il Servizio Parchi deve essere insieme Guardia forestale e Finanza, guida turistica e guardiacaccia, veterinario e infermiere, Belle Arti e Protezione Civile. E Ufficio oggetti e soprattutto persone smarriti, spesso volontariamente, come le quasi mille che ogni anno si avventurano nelle zone più remote dei Parchi, into the wild, e poi scompaiono.
Esattamente come le loro controparti di pietra o acciaio che in altre nazioni identificano la storia di quei popoli, così anche i monumenti naturali di granito o di arenite, di ghiaccio e di fango che formano l’identità americana, la sua fauna, la sua flora immensa – che soltanto nel Parco nazionale delle Smoky Mountains, in Tennessee, presenta più di cinquecento varietà diverse di alberi e di fiori – ha bisogno di costanti cure. Prodotti di erosione geologica che continua, nel lavoro incessante della gravità, dell’acqua, del vento, del sole, aggrediti dall’inquinamento atmosferico e oggi dai mutamenti climatici che accelerano i cambiamenti, i Parchi avrebbero bisogno di dieci miliardi di dollari di restauri, il triplo del bilancio annuale. Soldi che invariabilmente il Parlamento nega o centellina per ridurre la spesa pubblica, risultando da tutti i sondaggi che alligatori e orsi, bisonti e lupi non votano. Ma la “Buona Idea” che l’America ebbe a metà del Diciannovesimo secolo, che Wilson rese strutturale e permanente cent’anni fa e che Franklin Roosevelt arricchì negli anni Trenta, è esposta a un rischio ben più devastante dell’erosione e della natura, e cioè all’ingordigia di chi concupisce quel legname, quelle risorse, quei giacimenti fossili e tutte le ricchezze custodite e protette dai mitici ranger.
Eppure, nonostante tutto, oggi questi monumenti, naturali o fatti dall’Uomo, sono una delle pochissime attività pubbliche in attivo. Restituiscono ogni anno ai contribuenti quasi trenta miliardi di dollari in biglietti di ingresso in cambio di appena tre di costi. Un colossale affare, per lo zio Sam ingrato e avaro. Soprattutto un investimento che può anche ripagare in utili ben superiori a quelli misurabili in dollari e cent, come scoprì Galen Clark. Il canadese condannato a morte dalla tubercolosi quando aveva trent’anni morì a novanta, salvato dagli alberi che lui aveva salvato.