Corriere della Sera, 21 agosto 2016
In Libia non ci sono quasi più donne per le strade
In Libia non ci sono quasi più donne per le strade, nei luoghi pubblici, nei negozi. «Dopo la rivoluzione di 5 anni fa sono cresciuti i movimenti islamici radicali. Persino a Tripoli, tradizionalmente la città più laica e aperta del Paese, noi donne restiamo più a casa a causa della situazione di caos, violenza e instabilità» dicono Mabruka Bsikri e Samira el Masoudi, attive nelle organizzazioni che vorrebbero rilanciare il ruolo delle donne. Intanto le «mogli dell’Isis» adescano le studentesse vestite con il velo integrale per invitarle a stare con i militanti del Califfato.
I n Libia non ci sono quasi più donne per le strade, nei luoghi pubblici, nei negozi. Non che prima fossero particolarmente visibili. Muammar Gheddafi le «utilizzava» sostanzialmente come strumento di propaganda. Le sue «amazzoni della rivoluzione verde» fungevano da vetrina per le opinioni pubbliche straniere.
Però, almeno nelle città principali, le incontravi negli uffici, alla guida delle auto, nei mercati, sulle spiagge d’estate. Oggi le cose sono completamente cambiate. «Dopo la rivoluzione di cinque anni fa sono cresciuti i movimenti islamici radicali, è riapparsa l’anima conservatrice della Libia profonda. Persino a Tripoli, tradizionalmente la città più laica e aperta del Paese, noi donne restiamo più a casa. Molte si rassegnano a causa della situazione di caos, violenza e instabilità. E tante perché così vogliono le nostre famiglie», ammettono Mabruka Bsikri e Samira el Masoudi, attive nelle organizzazioni tripoline che vorrebbero rilanciare il ruolo delle donne.
A Misurata, città conservatrice per eccellenza dove i capi delle milizie sostengono apertamente di non volere hotel sulla costa perché «poi arriverebbero alcool e turiste in bikini per corrompere i nostri ragazzi», è come se le donne fossero state «abolite». Persino nelle botteghe che vendono i veli femminili servono gli uomini, a comprare arrivano altri uomini: le loro donne restano in auto con i figli. A Tripoli va un po’ meglio, ma nulla a che vedere con gli anni precedenti il 2011. «In verità, non doveva per forza andare così. Nel 2012 eravamo tutti speranzosi. E noi donne stavamo in prima fila a guidare le spinte alle riforme. Poi però sono apparse le incertezze, le paure», dice Mabruka. Anche in Libia, come in larga parte del Medio Oriente, la «questione femminile» si rivela così un termometro importante delle tensioni crescenti.
Siamo arrivati a Tripoli convinti che le sconfitte dell’Isis ormai circondato a Sirte fossero un viatico di stabilità e sicurezza. Ma abbiamo trovato una città sulla difensiva, disordinata, con maleodoranti montagne di immondizie per la strada, continui tagli alla corrente elettrica, interi quartieri deserti al primo buio. Soprattutto, le faide tra bande armate locali sono in netta crescita. Quattro giorni fa ci sono stati scontri a fuoco presso l’aeroporto internazionale di Mitiga. Due sedi dei servizi segreti sono state attaccate a colpi di mitra. Le cinque milizie che hanno il compito di garantire la pace tra il mezzo milione di persone che vive e lavora nei quartieri centrali sono in guerra aperta. Cuore dello scontro è la sfida tra le brigate di Misurata, che hanno inviato il fior fiore dei loro uomini a combattere contro il Califfato, e le brigate locali, che ne approfittano per guadagnare terreno. «Hanno cercato di pugnalarci alla schiena. Ma non potranno scacciarci dal controllo della capitale. Appena avremo terminato la nostra missione a Sirte, torneremo a Tripoli più forti di prima, quei vigliacchi la pagheranno cara», ci diceva due giorni fa il colonnello Mohammad al Ghasri, portavoce militare di Misurata. Soffiano sul fuoco gli ex fedelissimi a Gheddafi che adesso simpatizzano apertamente con il generale Khalifa Haftar, capo di stato maggiore del governo di Tobruk, e sono sostenuti dai gruppi armati berberi sulle colline di Nafusa e Zintan. Contro di loro stanno le forze legate ai Fratelli Musulmani e con personaggi del calibro del grande Mufti di Tripoli.
I desaparecidos sono all’ordine del giorno, spesso non è chiaro se si tratti di rapimenti politici o per riscatto. Talvolta i due aspetti coesistono. Tra gli arresti eccellenti di questo braccio di ferro continuo c’è anche Jamal Zubia, che sino a poche settimane fa era direttore dell’ufficio stampa nella capitale. Ogni venerdì pomeriggio, dopo le preghiere tradizionali, la «piazza dei martiri», una volta nota come «piazza verde», diventa il centro di manifestazioni e contro-manifestazioni che rischiano in ogni momento di sfociare nella violenza. Marina (chiede non venga scritto il cognome), studentessa di medicina all’ultimo anno, racconta di vicende inquietanti: «Sappiamo che ci sono cellule dell’Isis a Tripoli. Le loro donne, per lo più tunisine come rivela il loro accento, girano in auto presso le scuole superiori e avvicinano le ragazze vestite col velo integrale per invitarle a stare con i militanti dell’Isis. La figlia di una mia amica è stata quasi rapita pochi giorni fa da tre che avevano aperto la portiera per afferrarla al braccio».
Samira el Masoudi ricorda con nostalgia una vecchia compagna di lotta: Salwa Bugaighis, avvocatessa e nota attivista per la difesa dei diritti umani di Bengasi assassinata nel giugno 2014. «Salwa è stata uccisa, suo marito rapito, anche perché era impegnata a costruire una Libia migliore. Il loro dramma è stato un avvertimento per tutti noi», dice. Con l’aggiunta di una dolorosa nota personale: «Ho tre figli maschi. I primi due mi sostengono, ma il terzo ha meno di vent’anni, è stato condizionato dai religiosi integralisti e ora vorrebbe che uscendo mi coprissi sempre il capo».