Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2016  agosto 19 Venerdì calendario

Bolt, ritratto di un grande «vecchio» che vince sempre. Anche a ritmo di samba

Yes, he can. Bolt incendia ancora tutti e vince in 19”78 (stesso tempo della semifinale). La sua è una cavalcata solitaria, sbuffa un po’, i 30 anni si fanno un filo sentire. Tripletta anche nei 200 metri. Prima volta della storia che uno sprinter dura così tanto, nessuno ci era mai riuscito: «Sono il più grande, come Muhammad Ali e Pelè. Sul rettilineo il mio corpo non rispondeva, sto diventando vecchio». E siamo a quota 7 medaglie d’oro in tre Giochi, più quella in sospeso della staffetta di Pechino. Gli avversari? Dietro, lontani. Il canadese De Grasse è argento (20”02) e il francese (bianco) Lemaitre è bronzo ( 20”12) e riporta un po’ di vecchia Europa sul podio. Poi è una sbronza di selfies con il pubblico che urla il suo nome, che lo vuole toccare. Bacia la corsia numero 6, fa il giro di pista con la bandiera brasiliana oltre a quella giamaicana. Ai blocchi Bolt si esibisce in un passo di samba, tra gli applausi: figurarsi se perde la concentrazione. Anche Albert Einstein faceva linguacce, ma quando andava in bicicletta, non quando inventava la formula della relatività. Ballare sulle paure del mondo per otto anni senza mai cadere è fenomenale. Fare l’artificiere della tensione, quello che ogni volta disinnesca le rabbie, è meraviglioso. Lui è Fast &Fabulous. Furious manco per niente. Lo inquadrano mentre sul campo di riscaldamento con le cuffie sulla testa si dimena più di Josephine Baker e di Michael Jackson messi insieme. «We’re jammin». Colpo d’anca, passettini, giro di mani. Ma non deve andare sul palco a cantare, deve correre, però non glielo dite, lui si crede hot and cool. Per questo gli mettono sempre «Run Like the Wind» come colonna sonora. C’è chi per distendersi usa l’ipnosi (ultima moda), chi lo yoga, chi si ritira con il suo psicologo, chi abbassa gli occhi e si guarda dentro. Lui si spara musica, saluta tutti, s’intrattiene con i lanciatori di peso (non proprio colleghi), alza lo sguardo e non vede confini. Il fuoco che scalda lui, brucia e sfinisce gli altri. A fine gara si esibisce nel suo show e tutto lo stadio gli va dietro. Superman di giorno, Dolce Vita di notte (ma «dopo», non durante le gare). Nessuno è mai stato così devastante e ironico. Nessuno ha la sua taglia, la sua accelerazione, quella falcata da giraffa. Carl Lewis era un cigno nero, voleva gli applausi, ma non condivideva niente, anzi tagliato il traguardo se ne andava a casa con la superbia di chi può. Pietro Paolo Mennea che vinse questa gara a Mosca ’80, appena si accorse che la stava perdendo, era un uomo aggrovigliato, in lotta con se stesso, incapace di godersi il successo, ma testardo nel non farsi sorpassare dagli altri. Frank Fredericks, della Namibia, era alto, discreto e silenzioso, non emetteva nemmeno un respiro, l’americano Michael Johnson andava dritto come un proiettile, mulinava gambe come un pazzo, e non dava confidenza a nessuno, Ato Boldon di Trinidad era estroverso, sfacciato, stracarico di aggressività. Diceva: «Noi sprinter eravamo in guerra contro tutti, maledivamo i rivali, la pista, il traguardo. Bolt ha cambiato tutti, ora sorridono, fanno gli spiritosi, cercano di dare spettacolo». Sì Bolt ha cambiato l’atletica, anzi l’ha sequestrata: musica, giochi, atmosfera da disco. A questo serve l’uomo più veloce del mondo: a stappare sogni e nuovi mercati. A far sognare che si può danzare sulla legge di gravità, senza inciampare. Facile, quando lo fa lui. Ma cercando di inseguirlo si sono rotti e ribaltati in tanti: gli americani Gay e Gatlin, il connazionale Blake. Tutti l’hanno sfiorato, lui si è lasciato toccare, poi è ripartito avanti. I 200 metri sono il suo giardino preferito, e anche stavolta non l’ha fatto calpestare a nessuno. Da questa distanza è partito ragazzino ai mondiali juniores e qui ha chiuso il cerchio nella sua ultima olimpiade.
Gli manca ancora la staffetta veloce e poi sarà «the end» al film dei Cinque Cerchi. Il suo è un lungo addio che finirà ai mondiali di Londra l’anno prossimo. Nessuno nei meeting costa quanto lui: paghi uno, e fai a meno di altri dieci. È un brand mondiale: da quando ha 25 anni guadagna più di 2.500 euro a metro.
Ora farà il ricco pigro: ma non toglietegli le cuffie.