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 2016  agosto 19 Venerdì calendario

Due o tre idee pazze per una vera rottamazione. Lungo colloquio con Giorgio Dell’Arti

«Sto scrivendo un libro, ma un pausa per lei la faccio volentieri»: la voce di Giorgio Dell’Arti arriva al telefono da Pitigliano, nella Maremma toscana che vede il Lazio. Classe, 1945, catanese trapiantato a Roma, Dell’Arti è inventore di alcuni giornali, come il Venerdì di Repubblica e il Foglio del Lunedì, fornitore di contenuti a molti altri, con la sua società, Vespina, nonché anima di Cinquantamila.it, portale di biografie e cronache del passato.
Ma è anche scrittore da sempre, Dell’Arti: il suo L’uomo di fiducia, dialogo con Ettore Bernabei uscito per Rizzoli nel 1998, è tornato di grande attualità con la scomparsa direttore generale della Rai.
Dell’Arti ci dica che romanzo sarà.
«Se lo può scordare».
Su non faccia lo scaramantico, pure lei.
«Le dico che non sarà un romanzo d’amore, né un giallo, o noir, o thriller e, men che meno, sarà un libro di denuncia. Se proprio vuole una definizione...».
Ce la dia.
«Sarà una fuga dall’attualità».
Ovviamente edito da Clichy, la casa editrice fiorentina di cui è diventato socio da qualche anno.
«Ovviamente».
Senta, allora a parlare di attualità ce la porto io, perché ancorché impegnato nella scrittura, la mazzetta dei giornali, uno come lei, non la molla mai. Qual è il grande tema dell’estate?
«Le rispondo senza esitare: l’economia. Un po’, perché siamo messi male, un po’ perché lo siamo da un pezzo».
E che idea se ne è fatto?
«Che la questione deve essere affrontata alla radice, con una o più rottamazioni».
Ah, dunque parliamo di Matteo Renzi?
«Ci arriviamo, se vuole, ma mi riferisco proprio al fenomeno economico. Il Pil americano, sempre in discesa dal ’29, ebbe un balzo straordinario alla fine della Seconda guerra mondiale, quando ci furono interventi pubblici per rilanciare il mercato dell’auto».
Rottamazione vera e propria, dunque.
«Esatto. Distruggere quello che c’era prima, per attivare una ricostruzione vantaggiosa. Il tema vero è quello: bisogna avere il coraggio di cambiare i nostri stili di vita, per ricostruire».
Mica mi parlerà anche lei di decrescita felice?
«No, anche se Serge Latouche, quando spiega come è bello vivere con poco, consumare meno petrolio, ha ragione. Sbaglia quando non tiene conto del punto di partenza».
Ovvero?
«Ovvero se voglio arrivare da New York, partire dalla Florida o da Kuala Lumpur non è la stessa cosa».
E dunque?
«E dunque come si fa a raggiungere la decrescita felice stando nel posto in cui siamo? Come posso obbligarti a non comprare l’auto? Solo con la polizia sotto casa».
Coi i kosovari che praticavano l’esazione forzosa del debito, come nel suo ultimo romanzo, I nuovi venuti (Clichy). Ma, visto che non parla di decrescita felice, la sua rottamazione in che cosa consisterebbe?
«Una cosa profonda, complessiva. Non facile d’attuare, perché la gran parte di noi sta bene com’è: la seconda casa, la seconda macchina, le vacanze».
Certo e chi molla un centimetro?
«Si figuri che, al tempo dell’ultimo governo di Romano Prodi, mi ritrovai ospite a Buona Domenica, di Canale5, in cui si sosteneva appunto che quell’esecutivo stesse impoverendo il Paese».
Chi conduceva, Barbara D’Urso?
«Ma no, c’era la moglie di Lucio Presta, come si chiama? Paola Perego».
E parlavano di povertà?
«Sì, anche se in un modo un po’ raffazzonato: ricordo che cominciarono a parlare di «“sprid”».
Prego?
«Lo spread, intendo, lo pronunciavano a quel modo, tanto che, in diretta, mi permisi di correggere: “Guardate che si pronuncia ‘spred’”. Ma in quella puntata erano ospiti due giovani poveri i quali, scoprii, avevano entrambi l’auto. Il povero con l’auto non si è mai visto. Né si poteva vedere».
Però, scusi, una recente ricerca dell’Istat dimostra che avremo una generazione di figli che non riuscirà a raggiungere il reddito dei padri.
«Anche qui bisogna intendersi».
Facciamolo.
«I nostri figli, io ne ho avute due dalla mia ex-moglie, Silvia, e uno ce l’ha la mia compagna da trent’anni, Lauretta, non raggiungeranno i nostri stipendi, ma i patrimoni che avranno, noi ce le sognavamo».
Qualcuno obietterà: beh, sono i figli di una classe agiata.
«Ma no, mi scusi. Io, figlio di una profuga istriana e di un attore di scarso successo, ho vissuto fino a otto anni in una camera ammobiliata. I miei erano poveri in canna: riuscirono ad affittare un appartamento nel 1953. La generazione di cui parliamo erediterà cose che quella passata non immaginava. Del resto, siamo per l’85% proprietari di case o no?».
Abbiamo detto a lungo che era uno degli asset del sistema Paese.
«Prima delle crisi, le banche straniere volevano venire qui, per questa nostra importante patrimonializzazione. Grazie ad Amintore Fanfani, dagli anni ’60, gli italiani hanno potuto assecondare questa voglia di casa, tipicamente femminile».
In che senso, tipicamente femminile?
«Perché le donne hanno notoriamente due fissazioni: le scarpe e le abitazioni».
Torniamo alla rottamazione. Nessuno, neanche i giovani-poveri-che-proprio-poveri-non-sono, la accetterebbe, mi par di capire.
«Perché ci sono i giro ancora i cascami del post-sessantottismo. Lei pensi a quale battaglia è stata fatta sull’articolo 18, come se, assumendo una persona, uno se la debba tenere tutta la vita, qualsiasi cosa accada. Sono toni da “salario come variabile indipendente dalla produttività”. Riemergono ora, sulla questione degli insegnanti».
La famigerata «deportazione».
«Appunto. Già l’utilizzo di quella parola è vergognoso, pensando a chi ha subito deportazioni vere. Una manifestazione di ignoranza, di insensibilità verso chi ha vissuto tragedie immani. Una stronzata ignobile, mi scusi».
La scuso. Ma anche insensibilità verso quelli che il lavoro non ce l’hanno.
«Oltretutto. E che non parte da un dato obiettivo: al Nord ci sono più cattedre e meno docenti. E al Sud diminuiscono gli alunni, perché c’è una desertificazione in atto, nel senso che la gente, quando può, se va. E qui, dopo questa lunga premessa, vengo ad alcuni esempi di rottamazione».
Procediamo.
«Il Mezzogiorno è davvero una questione drammatica, di cui il Governo non sembra sufficientemente allarmato».
Che fare, Dell’Arti?
«Portare la capitale a Napoli».
A Napoli?!
«A Napoli. Già ai tempi dello spostamento da Torino a Firenze se ne parlò. Eppure c’è pochissima ricerca storica sull’argomento. Anzi, non si sono date neppure tesi di laurea».
Argomenti che lei, con la sua biografia di Cavour (Marsilio), ha approfondito.
«Napoli, allora, con 400mila abitanti, era la terza città europea, dopo Londra e Parigi. Se avessero dato ascolto a chi proponeva quella soluzione, probabilmente non avremmo avuto cinque anni di brigantaggio in tutto il Sud e forse la questione meridionale avrebbe cambiato faccia».
E lei dice: facciamolo ora? Forse servirebbe più a Roma
«Probabilmente. Certo, per Napoli, sarebbe uno shock, che obbligherebbe a una vera ricostruzione della città, che porterebbe alla fine di certi comportamenti e al contenimento di certi fenomeni. Pensi a quali economie potrebbero mettersi in moto».
E poi, un irradiamento verso il Mezzogiorno. Anche l’attuale Capitale potrebbe forse superare qualche problema atavico.
«Per Roma suggerirei anche un’altra rottamazione, che teorizzo da tempo, e per la quale mi danno del matto, coloro a cui ne parlo».
Ossia?
«Interdire Roma dal traffico automobilistico, dal Grande raccordo anulare fino al centro».
Questa sarebbe una rottamazione autentica.
«Ci pensi, Pistelli. La nostra vita è imperniata sull’uso dell’auto, sulla velocità per raggiungere i luoghi, ma è anche responsabile del degrado morale in cui viviamo, basti pensare a quello che siamo in grado di fare quando siamo in un abitacolo».
Gli effetti di quest’Urbe pedonalizzata, quali sarebbero?
«Innanzitutto, scacco alla malavita: all’interno di Roma si potrebbero muovere in auto solo le forze di polizia».
Vada avanti.
«Enorme riconversione delle attività di chi sull’auto campa, dai benzinai ai meccanici, ai parcheggiatori. Un processo che andrebbe sostenuto col credito delle banche. Anche qui, economia nuova. E poi riqualificazione delle periferie: da Tor Bella Monaca non si verrebbe più al centro con l’auto e qualcuno avrebbe interesse a costruire anche lì, cinema, discoteche, tutto».
Vabbé Dell’Arti lei vivrà al centro di Roma. Chi legge dirà: lui la fa facile.
«Io vivo in zona Prati, ma prima stavo a Piazza Margana, dietro Piazza Venezia. Ma non è quello, mi creda. Quella sarebbe una rottamazione clamorosa».
Mi faccia un altro esempio.
«Un’importazione intelligente di stranieri, per far fronte all’inverno demografico del Paese, per cui abbiamo il tasso di denatalità più alto nel mondo col Giappone».
L’immigrazione attuale non basta?
«Ma no, parlo di un ingresso a persone disponibili a istruirsi, a imparare l’italiano, a diventare italiani, insomma, con un percorso ad hoc. Così è solo casino. D’altra parte...».
...d’altra parte?
«D’altra parte non è nemmeno possibile pensare di arginare il fenomeno, figuriamoci. Emigrare è un fondamentale dell’essere umano, un bisogno primario. L’Africa conoscerà un incremento demografico spaventoso, di qui al 2050, mica potremo fare la guerra per fermarli? Non ci sarà Matteo Salvini che tenga».
E allora, come conciliare la bomba demografica africana con l’immigrazione governata di cui lei parla?
«Avviando anche in quei Paesi, piani di sviluppo veri. È una verità statistica che, laddove migliorano le condizioni di vita, diminuisce la natalità. Nel frattempo, accogliamo intelligentemente e severamente».
Di rottamazione in rottamazione arriviamo a Matteo Renzi, che sta in politica nazionale da un lustro all’insegna di quella parola. Sarebbe in grado di gestirli lui questi processi?
«Intanto Renzi deve vincere il referendum costituzionale, come mi auguro».
Lo posso scrivere?
«Scriva, scriva: Dell’Arti vota “Sì”. E non conosco Renzi».
Le piace la riforma?
«Ho scelto in base a un criterio molto semplice».
E cioè?
«Si buttano via più cose vecchie col «Sì» o col «No»? Si svuota di più lo sgabuzzino d’Italia delle cose marce con questa riforma o lasciando le cose come stanno? Secondo me si rottama di più con la Costituzione modificata. Dopodiché...».
...dopodiché
«Dopodiché lo so anche io che il Senato delle regioni è una porcheriola, che Renzi avrebbe dovuto abolirlo tout court...».
...che l’articolo 70, nella nuova stesura, è scritto male...
«Ma figuriamoci! Votando “Sì” si fanno fuori un bel po’ di cose vecchie. Via, sciò! E vaffa’ pure ai professoroni, e a tutti loro discorsi del (bip). Lo scriva, eh. Che il Paese, in queste condizioni, l’hanno ridotto esattamente questi qua».