Corriere della Sera, 19 agosto 2016
«La pittura è una piccola fumata bianca». A proposito di una bella mostra su Ernst e Tanguy
André Breton chiede a Yves Tanguy: «Che cos’è la tua pittura?». «Una piccola fumata bianca», risponde l’artista che stenta a dare un nome ai propri quadri, sino a quando i titoli non gli appaiono «come per magia». Ecco, allora, il Fondo della torre, il Palazzo con le finestre di rocce, lo Studio di una scuola con cristallo, Il martedì la luna si veste a festa, e così via, esposti al Musée Paul Valéry di Sète (sino al 6 novembre), assieme ai lavori di Max Ernst, nella rassegna curata da Maïthe Vallès-Bled, coautrice del catalogo (Editions Midi-Pyrénéennes ), con testi di Itzhak Goldberg, Philippe Piguer e Stéphane Tarroux. Una conferma (Ernst, dal ruolo avventuroso e trainante) e una scoperta (Tanguy, di cui molti ricorderanno la somiglianza straordinaria con Stan Laurel nel ritratto fotografico eseguito da Man Ray).
Da qui il confronto, serrato e parallelo, del percorso di due surrealisti sino agli anni Cinquanta. Entrambi emigrano negli Stati Uniti: Tanguy (nato nel 1900) vi muore nel ’55. Ernst, nato nel 1891 (morirà a Parigi nel 1976) lascia gli Usa nel ’53. Buona parte delle 70 opere in mostra, provenienti da collezioni private, sono pezzi rari. Le «sottili palpitazioni» di Max (come le definiva Crevel) si alternano «all’eleganza aria, terra e mare» di un pittore «spaventoso» (secondo Breton) come Tanguy. Due visioni di altrettanti autori, autodidatti, che pescano sì nello stesso lago surrealista, ma che, al momento di riavvolgere il mulinello, tirano su pesci di razze diverse.
Ciò è sicuramente dovuto ad educazioni artistiche differenti, anche se con lo stesso punto di partenza: Giorgio de Chirico. Per il ventiseienne Ernst la scoperta risale al 1918, quando il diciottenne Tanguy entra nella Marina mercantile e viaggia per Africa, Sudamerica e Inghilterra. Yves, invece, ne resta folgorato nel 1923.
Storia o leggenda narrano che quest’ultimo (il quale, dopo il marinaio, ha fatto lo strillone di giornali e lo scaricatore ai mercati generali), mentre era sul tram, abbia visto nella vetrina della galleria di Paul Guillaume il dipinto di de Chirico Il cervello del bambino (1914) e sia sceso dal veicolo in corsa, per poterlo guardare meglio, rischiando di rompersi le gambe. Quasi imbambolato, fissa il quadro per circa mezzora, sino a quando Guillaume lo invita ad entrare. «Da oggi farò solo il pittore», dice al gallerista.
Sino ad allora, Tanguy ha avuto un rapporto altalenante con l’arte: a 14 anni la visita dell’atelier di Matisse e l’inizio di qualche scarabocchio (paesaggi spettrali con figure umane o animali); a 20, durante il servizio militare a Lunéville, la conoscenza di Jacques Prévert, col quale due anni dopo va in giro a Montparnasse per vedere poeti e pittori.
Risale al 1925 la conoscenza di Yves con Breton e la sua tribù, cui segue la sua maggiore scommessa pittorica: la creazione di un mondo onirico che presenta delle enormi analogie con quello di Dalí (assieme al quale espone con Arp e Magritte). Intanto partecipa, con disegni e dipinti, a periodici surrealisti e a quasi tutte le mostre del movimento in Francia, Belgio, Usa, Giappone e Inghilterra. Nel ’38 espone a Londra anche due piccolissimi dipinti ovali, incastonati in un paio di orecchini che dona a Peggy Guggenheim. La donna ne indosserà uno quattro anni dopo, a New York, accompagnandolo con un altro di Alexander Calder («Voglio essere imparziale: un’opera surrealista e l’altra astratta»).
Successivamente, la pittura di Tanguy acquista toni sempre più allucinanti, angosciosi, con le ombre che proiettandosi danno corpo a corpi, sino a quando, nel ’39, s’imbarca per New York, dove va a vivere al Greenwich Village con la pittrice americana Kay Sage che sposa l’anno dopo. Entrato nella «scuderia» di Pierre Matisse, continua ad esporre, in Usa e in Europa (nel ’53 è al «Naviglio» di Milano), in quasi tutte le mostre dei surrealisti, restando fedelissimo a Breton, nonostante venga da lui accusato di «imborghesimento». Max Ernst decide di scendere in campo a difenderlo: nessuno più di lui, definito «il più surrealista dei surrealisti», ha titolo per farlo. Anche perché in questa sorta di gioco è già allenato: nel ’38, infatti, ha mandato al diavolo Breton schierandosi a favore del poeta Paul Éluard. E poi il gioco è parte della sua vita. Inventore del collage e del frottage, Max ama dipingere paesaggi veri e immaginari per confondere i critici. E proprio per questo intitola Note per una biografia, tessuto di verità e menzogne la storia della propria vita.