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 2016  agosto 19 Venerdì calendario

Per capire la Libia di oggi bisogna conoscere il generale Haftar

Una vita avventurosa, la gloria, la prigionia, l’esilio e le svolte controverse: più di tanti altri Khalifa Haftar incarna le vicende della Libia contemporanea. Oggi il generale, vero uomo forte di Tobruk, viene indicato come principale ostacolo da superare per il premier di Tripoli, Fayez Sarraj. «Dopo la caduta di Isis nella sua roccaforte, potremmo essere costretti a usare ancora le armi per battere Haftar», sostengono apertamente le milizie di Misurata impegnate nell’assedio di Sirte. E Haftar non si tira certo indietro, forte dell’appoggio garantito da Egitto ed Emirati, risponde per le rime, addirittura accusa gli Stati Uniti di «azioni illegali, paragonabili a un’invasione militare priva di alcun mandato internazionale», riferendosi ai bombardamenti Usa contro Isis.
Una parabola certo curiosa per questo ex generale di Muammar Gheddafi, che nel 2011, appena tornato dal ventennio di esilio negli Stati Uniti, voleva diventare capo di Stato maggiore della rivoluzione e costituire l’anello di congiunzione tra Tripolitania e Cirenaica.
In tutto questo un ruolo ce l’ha anche l’Italia. In passato la nostra diplomazia lo aveva corteggiato, sperando di convincerlo a limitare le sue recenti aspirazioni ad assurgere a comandante in capo del nuovo esercito libico per invece sostenere Sarraj in una posizione più subalterna. La cosa non ha funzionato. Haftar ha puntato i piedi, denunciato Sarraj come «un burattino illegittimo al servizio della comunità internazionale». Ultimamente Roma (assieme agli americani), nonostante la crisi con Il Cairo scatenata dal caso Regeni, spera che il presidente Al Sisi contribuisca ad addolcire il pretoriano di Tobruk. Che ci si riesca è però ancora tutto da provare.
Lui ne ha viste tante, non è uomo da lasciarsi influenzare. Nel 1969, a soli 26 anni, fu uno dei giovani ufficiali di belle speranze che sostennero il golpe di Gheddafi contro re Idris. Fu ricompensato. Gheddafi lo mandò a comandare il contingente libico nella guerra del 1973 contro Israele. Nel 1987 dirigeva le operazioni in Ciad, quando venne catturato. Ma già maturava forti dubbi sulla giustezza dell’intera campagna: stava ordendo a sua volta piani per rovesciare Gheddafi. Scoperto, dovette fuggire negli Stati Uniti, dove ottenne la cittadinanza americana nel 1990. Da qui l’accusa continuamente ripetuta tutt’ora dai suoi numerosi avversari di essere «agente della Cia».
A marzo 2011, nel pieno della sommossa anti Gheddafi e l’inizio dell’intervento militare Nato in suo sostegno, Haftar compare a Bengasi: vorrebbe comandare le milizie rivoluzionarie. Ma al suo posto è nominato in aprile Abdul Fatah Younes, più vicino ai gruppi islamici. Tre mesi dopo Younes è assassinato in circostanze mai chiarite. È allora che Haftar, anche per i suoi rapporti stretti con i vecchi quadri dell’esercito e le forze laiche del Paese, viene sospettato di voler diventare «un nuovo Gheddafi». I modi spicci, la vita spartana, lo stile appartato, contribuiscono all’immagine. Nel frattempo lui davvero riallaccia i rapporti con gli ex pro Gheddafi nella diaspora e in Libia, si allea alle milizie di Zintan, che, da quando hanno perso il controllo dell’aeroporto internazionale di Tripoli, sono in uno stato di quasi guerra con quelle di Misurata.