la Repubblica, 19 agosto 2016
I dolori di Ryan Lochte, una vita all’ombra di Phelps
I capelli biondo platino, quelle scarpe fluorescenti, l’anima pop. E una dannata malattia: rimanere sempre secondo. Ryan Lochte, 32 anni, il nuotatore che si è inventato di tutto per essere meglio di Phelps. E invece nonostante i party, i reality show, le copertine su Vogue, lui rimaneva il soldato e Michael il re. A Rio lo squalo di Baltimora a 31 anni e alla quinta Olimpiade ha raggiunto quota 23 ori e 28 medaglie, se n’è andato enorme dalla storia delle acque così come ci era entrato e tornato dopo l’addio a Londra 2012.
Ryan è invece rimasto a guardare, ancora una volta: oro nei 4x200 stile libero perché c’era Phelps in staffetta, e nella sola gara individuale è stato quinto a due secondi da Michael trionfatore nei 200 misti. «Non so dire se è stata la mia ultima Olimpiade» ha detto subito dopo Lochte, che di Giochi ne ha vissuti quattro, con 6 ori e 12 medaglie in tutto. «Ci sono molte cose che devo cambiare nei prossimi quattro anni se voglio tornare a fare questo sport. Ora mi devo fermare per un po’, non so quanto. Ma sono contento per Michael, insieme ci siamo sempre stimolati, lui non solo è il miglior nuotatore ma il più grande atleta della storia delle Olimpiadi». Dopo di che, è andato a farsi un drink. Più d’uno a giudicare da come ormai sembrano essere andate le cose a Rio, con una rapina simulata per coprire una nottata brava. Lochte ha annegato il suo ultimo dolore. Ce l’aveva sempre messa tutta per essere diverso, anzi uguale a Phelps. Mentre Michael perdeva la strada (marjiuana, alcol, rehab), Lochte provava a essere meglio e peggio. Si racconta che da ragazzo in visita al Lincoln Memorial disse alla madre: «Io qui ci voglio pisciare». Il bambino dagli occhi azzurri si costruiva. Nato a Rochester, nello stato di New York, in piscina ci è finito a tre anni, per caso e ci è rimasto a suo agio. Fino a quando non è arrivato Michael.
Che a Pechino divenne l’astro, il mostro da combattere: otto medaglie d’oro, annegato Spitz. Lochte riuscì a prenderne solo una (nei 200 dorso). Si inchinò, ma non piegò. Ha cambiato dieta e allenamento: da Matt Delancey in Florida, metodi da lavori forzati, tra cui esercizi da Gladiatore, tipo prendere a martellate gli pneumatici dei tir, lanciare fustoni di birra e catene. Fu chiamato il soldato Ryan. Ma nessuno l’ha salvato. Soprattutto da se stesso. «Non mi sono mai preso più di due settimane di vacanze».
A Londra vinse i 400 misti, Phelps arrivò solo 4°. Ryan pensò: è il mio momento. Invece Michael si fermò, sembrava allora per sempre. Ryan non sapeva con chi prendersela. Ha lasciato coach Gregg Troy e cambiato città, a Charlotte in North Carolina da Davis Marsh. Ha detto no al junk food, si è fatto seguire da uno chef (Glenn Lyman). Per digerire sconfitte, lievitare rivincite. Sapeva che Michael sarebbe tornato. E con lui la malattia, di essere secondo.