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 2016  agosto 19 Venerdì calendario

In morte di Ernst Nolte, storico revisionista

Sergio Romano per il Corriere della Sera
Quando parlava di se stesso, Ernst Nolte, scomparso a Berlino all’età di 93 anni, non si definiva semplicemente «storico». Preferiva considerarsi un pensatore della storia, uno studioso di idee, concetti, categorie e metodi storiografici. Era stato allievo del filosofo Martin Heidegger, si era laureato con una tesi sul marxismo e sull’idealismo tedesco e aveva evitato il reclutamento, durante la Seconda guerra mondiale, per la malformazione di una mano. Dopo l’università si era lungamente dedicato allo studio di tre movimenti «fascisti» nell’Europa fra le due guerre: il fascismo italiano, il nazionalsocialismo tedesco e l’Action Française.
Per qualche anno i suoi libri furono pubblicati e tradotti in altre lingue senza che i suoi punti di vista e le sue riflessioni facessero scandalo. Ma era già chiaro, sin dai primi lavori, che le domande formulate da Nolte avrebbero messo in discussione alcune delle certezze del secondo Dopoguerra. Che cosa era stato il Terzo Reich? Il male assoluto? Un unicum della storia contemporanea o un fenomeno collegato ad altre vicende europee? Una monocrazia, una policrazia o addirittura, secondo una definizione di Goebbels, una anarchia autoritaria? Quali furono le radici dell’antisemitismo di Hitler? Quale fu il ruolo degli ebrei nella Rivoluzione d’ottobre? Era lecito liquidare come «revisionismo» tutto ciò che non corrispondeva ai canoni della ortodossia storiografica? Era lecito processare uno storico per avere avanzato dubbi sulle cause di un evento storico universalmente condannato?
Lo scandalo scoppiò quando Nolte, nel 1987, scrisse un libro sulla «guerra civile europea», dopo aver pubblicato l’anno prima sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» il testo di un conferenza intitolata Il passato che non vuole passare . Il tema delle sue riflessioni era, in sostanza, la colpevolizzazione della Germania, il processo che molti storici e uomini di Stato avevano intentato due volte alla nazione tedesca nel corso del Novecento: dopo la fine della Grande guerra e dopo la Seconda guerra mondiale.
Ma fra i due processi vi fu una importante differenza. Quello celebrato dopo il 1918 ebbe per effetto l’articolo 231 del trattato di Versailles, (in cui la Germania fu costretta a riconoscersi colpevole del conflitto) e una levata di scudi dell’intera intellighenzia tedesca contro un verdetto che venne considerato iniquo e partigiano. Il secondo processo invece fu celebrato a Norimberga, si concluse con dodici condanne a morte e lasciò la Germania ammutolita sino a quando Nolte, per l’appunto, ritenne che fosse ormai giunto il momento di collocare il nazismo, come ogni altro avvenimento, in una prospettiva storica.
Nolte sosteneva che nella politica di Hitler vi era anche una risposta al bolscevismo; che il lager era la versione tedesca del Gulag; che la sorte riservata agli ebrei non era diversa da quella che i bolscevichi avevano riservato alla borghesia, al clero e alla aristocrazia russa; che la «notte dei lunghi coltelli», durante la quale Hitler aveva liquidato le formazioni naziste di Ernst Röhm, era l’equivalente tedesco delle purghe con cui Stalin si era brutalmente sbarazzato di alcuni fra i maggiori responsabili della rivoluzione bolscevica, da Lev Kamenev a Grigorij Zinoviev, da Nikolaj Bucharin a Lev Trotzkij.
Il filosofo Jürgen Habermas replicò sulla «Zeit» di Amburgo che gli argomenti di Nolte cancellavano la memoria del genocidio ebraico e sminuivano le responsabilità del Terzo Reich. Qualche studioso prese le sue difese, altri furono ancora più severi di Habermas. In ultima analisi il dibattito fu più politico che storiografico. Pochi, fra gli avversari di Nolte, negavano l’acutezza delle sue analisi. Molti invece temevano che i suoi argomenti contribuissero ad assolvere Hitler dalle sue colpe e favorissero, sia pure indirettamente, la formazione di movimenti neonazisti.
Erano le stesse preoccupazioni che sono state espresse più recentemente quando l’Istituto di storia contemporanea di Monaco ha deciso di pubblicare una edizione «scientifica» di Mein Kampf , la Bibbia di Hitler: due volumi, una introduzione di 80 pagine, una bibliografia di 122 pagine. Quando l’opera è giunta nelle librerie i timori si sono dissipati. La scienza storica tedesca aveva sepolto Hitler sotto una valanga di note impeccabilmente documentate (3.500). Il passaggio del tempo ha giovato anche a Nolte e alla sua opera, oggi ancora criticata, ma pur sempre accettata e riconosciuta per i suoi meriti.
È accaduto a Nolte, per molti aspetti, ciò che è accaduto a Renzo De Felice. Entrambi erano accusati di considerare degni di analisi storiografica uomini e movimenti politici (nel caso di De Felice, Mussolini e il fascismo) su cui era già stato pronunciato un giudizio senza appello. Questo spiega perché Nolte sia stato per parecchi anni il beniamino di quella parte della cultura italiana che era revisionista o, più semplicemente, stanca degli schemi semplificatori con cui veniva scritta la storia italiana dall’Unità al fascismo.
Delle attenzioni e delle attestazioni di stima che gli venivano dall’Italia, Nolte era felice. Accettava volentieri gli inviti che gli pervenivano da studiosi italiani. Sfogliava con piacere le traduzioni italiane dei suoi libri. Trovava in Italia una sorta di compensazione per la freddezza con cui era trattato da una parte della cultura tedesca. Gli spiegai un giorno che il suo caso ricordava quello di un altro intellettuale straniero, Georges Sorel, apprezzato in Italia, per molti anni, più di quanto fosse letto e studiato nella sua Francia. Era un profeta della rivoluzione, il teorico del sindacalismo rivoluzionario, ma dovette la sua popolarità in Italia a un liberale conservatore: Benedetto Croce. Credo che a Nolte questa analogia sia piaciuta.

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Massimiliano Panarari per La Stampa

Il negazionista dal volto umano. E un autentico cattivo maestro che è diventato un protagonista centrale della storiografia del Secolo breve (per usare la nota formula di una figura ai suoi antipodi come Eric Hobsbawm).
Ernst Nolte, morto ieri a Berlino a 93 anni, era per tutti un intellettuale conservatore e nazionalista che ha inteso la storiografia come disciplina da impiegare «retroattivamente» anche nell’interpretazione del presente, e che alla normalizzazione e al «superamento del senso di colpa» della Germania per il nazismo e la Shoah ha consacrato la propria opera. Ma il suo paradigma relativistico estremo faceva da maschera alle finalità reali e al pensiero autentico di un profeta dell’antisemitismo e del negazionismo, convinto delle «buone ragioni» dell’aberrante e mostruosa ideologia nazionalsocialista. E, difatti, lo storico che formalmente si professava «antifascista» e dichiarava di augurarsi una destra tedesca «normale», non per caso, lasciava trasparire continue ambiguità intorno al giustificazionismo, ed era accesamente anti-israeliano. 
Nato nel 1923 a Witten, nel Nord Reno-Westfalia, studente di filosofia a Friburgo con Martin Heidegger, anche per questo Nolte è stato innanzitutto uno storico delle idee e delle culture politiche che subordinava la lettura del dato storico a un impianto ideologico, e si costruì una carriera di primattore nelle controversie sull’uso pubblico della storia piegata alla sua deteriore rilettura del Novecento. Il suo principale successo è infatti consistito nello sdoganamento di un revisionismo storiografico che rese presentabile facendolo entrare nel dibattito accademico, ma che non era altro che la foglia di fico di un negazionismo occultato.
La prima fase della carriera dello studioso procedette al riparo delle polemiche, con la pubblicazione, nel 1960, de Il giovane Mussolini e, nel ’63, de Il fascismo nella sua epoca, il libro che gli consentì di ottenere, due anni dopo, la cattedra di Storia contemporanea all’Università di Marburgo, dove insegnò fino al ’73 allorché passò alla Freie Universität di Berlino.
Durante questo periodo, Nolte ha analizzato il fascismo come movimento internazionale e fenomeno «transpolitico» di natura diversa dal conservatorismo tradizionale, individuandone la radice nella destra radicale e controrivoluzionaria dell’Action française di Charles Maurras e Léon Daudet; da quel movimento antiparlamentare e «nazionalista integrale» i fascismi mutuarono il comunitarismo e l’identitarismo, fulcri ideologici della loro rivolta contro l’universalismo liberal-democratico e socialista. Revisionismo, giustappunto, perché, in pieni Anni 60, lo storico tedesco insisteva sul bisogno (pseudo) scientifico di contestualizzazione politico-temporale dell’estrema destra degli Anni 20, riuscendo a contrastarne la lettura in chiave criminale ed etica.
Scrisse quindi i volumi La Germania e la Guerra fredda (1974) e Marxismo e rivoluzione industriale (1983), ma fu solo con l’uscita – il 6 giugno ’86 – di un suo intervento sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung, intitolato «Un passato che non vuole passare», che gettò la maschera, facendo divampare l’Historikerstreit, la «disputa tra gli storici». Nolte stabiliva l’esistenza di un nesso causale-temporale tra lo «sterminio di classe» bolscevico e quello «di razza» nazionalsocialista, affermando che l’Olocausto avrebbe rappresentato una reazione e una risposta del Terzo Reich e della borghesia germanica (già atterrita dallo spartachismo) alla minaccia proveniente dalla Rivoluzione russa (e da quel mondo ebraico che ne consideravano il «burattinaio» e la guida). 
Comunismo, sionismo e nazismo venivano equiparati in maniera da sciogliere e confondere le responsabilità del regime hitleriano e dei suoi accoliti in una hegeliana «notte in cui tutte le vacche erano grigie». Auschwitz, il «male assoluto» veniva in tal modo relativizzato, perché la Germania nazista «semplicemente» reagiva agli «ebrei comunisti», i veri colpevoli nella sconcertante e strumentale rilettura dell’intellettuale simpatizzante dei partitini neonazisti. Puro negazionismo riverniciato, appunto, che si imponeva nel dibattito generale e all’opinione pubblica attraverso lo schermo dello schema revisionistico noltiano, con la dura opposizione di Jürgen Habermas e di altri intellettuali e storici e gli apprezzamenti di intellettuali importanti come François Furet e Renzo De Felice che caddero nel tranello.
Nolte avrebbe sistematizzato il suo paradigma ingannevole nel libro La guerra civile europea, 1917-1945 (1987), dove emergeva anche una visione assai riduzionistica del ruolo della Prima guerra mondiale. Nell’ultima fase lo storico criptonegazionista virò direttamente verso la filosofia della storia con libri in cui celebrava il pantheon culturale dell’antimodernismo reazionario che aveva irrorato il nazismo, come Nietzsche, Dramma didattico o tragedia?, Il pensiero della storia nel XX secolo e Heidegger e la rivoluzione conservatrice.

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Paolo Simoncelli per Avvenire
Ernst Nolte – scomparso ieri a Berlino all’età di 93 anni – è stato uno dei più grandi e più coraggiosi intellettuali contemporanei. Allievo di Heidegger fu più un interprete che un ricercatore (come De Felice) del tragico Novecento.
Il ricordo più sbagliato e più banale che si potrebbe offrire di Nolte sarebbe ridurre il suo grande affresco storiografico ad Auschwitz = Gulag; o, peggio, a un suo inesistente giustificazionismo della Shoah. La morte di Nolte è il sigillo conclusivo della fine di una cultura epocale: quella hegeliana, in tutte le sue declinazioni, neohegeliana, marxiana, idealista, storicista... È una morte che addita inequivocabilmente, anche ai più insensibili, la conclusione per molti aspetti epica e tragica, nel 1945, del ciclo storico dello Stato nazionale e con esso della cultura hegeliana con cui si sustanziava. Non più l’Historismus da allora ma la Soziologie. Non più Meinecke (figurarsi), né Nolte; ma ovunque sovraesposizione emblematica di Habermas e relativa scuola. Fin troppo facile, ancor più in Germania, acquisire il consenso pubblico, seguendo e ripetendo quanto previsto obbligatoriamente dal politically correct, dalla vulgata, dal controllo rigoroso della storia dei vinti indifendibili. Nolte, ancor più perché tedesco, ebbe il coraggio di indagare al di là del consentito, volle sperimentare l’azzardo dell’eresia intellettuale. Nolte aveva visto e detto quel che non si doveva dire: che il male assoluto era il complesso unitario del totalitarismo (non della sola e per giunta più tarda versione tedesca), che i genocidi erano due (di classe e di razza), che un regime si rispecchiava nell’altro traendone forza reattiva e giustificazione. Voleva dunque disancorare la Germania dalla sua “colpa”? Era un pericoloso agente della rinascita politico-militare tedesca?
Rifletteva, scriveva, insegnava (quando la contestazione violenta e diffusa glielo consentiva) ancor prima della caduta del muro di Berlino. Quando anche De Felice in Italia non poteva pubblicare e insegnare con piena libertà. Provvedeva la vigilanza democratica e antifascista a garantire lezioni ideologicamente corrette, altrimenti s’interrompeva l’indisciplinato docente. Come si poteva parlare di un’unica guerra civile europea dal 1915 al ’45? Il monopolio ideologico, il controllo dei mezzi di comunicazione di massa lo escludeva. Forse per questo ci si accorse dello scandaloso squarcio del velo del tempio quando la “Frankfurter Allgemeine Zeitung” nel giugno del 1986 consentì a Nolte una tribuna e un pubblico non più limitato ai rarefatti circuiti accademici. Ma Nolte veniva da studi seri, non ’strillati’. Per esempio, a suggerire a Renzo De Felice un piccolo e poco noto capolavoro di Nolte sul socialismo del giovane Mussolini tra Marx e Nietzsche (1960) fu Delio Cantimori. Un Cantimori che dalla cultura storicista tedesca proveniva, e a quel groviglio di passioni e interessi inconfessabili, nazionalbolscevichi, aveva guardato dentro, e scritto e riscritto un centone di libro poi prudentemente lasciato nascosto. Una testimonianza minima ma nient’affatto inerte di Cantimori che aveva colto nel giovane Nolte un profanatore della banalità. Con Cantimori – mi scrisse emblematicamente Nolte nel mar- zo 2002 – «sono un poco implicato».
Ben più, e più notoriamente, lo sarebbe stato con gli altri due grandi esponenti, De Felice e Furet, dell’unico metodo che consente che la ricerca non sia perpetuazione di dogmi: il revisionismo. All’apparire del primo volume di Nolte destinato a suscitare grandi discussioni, I tre volti del fascismo (edizione tedesca 1963, italiana 1966), Furet lo considerò straordinario. Più cauto De Felice: fascismo e nazionalsocialismo e Action Française non gli sembrava avessero un minimo comun denominatore. Discutere tra studiosi era possibile (anche delle divaricazioni tra fascismo e nazismo, altro tema proibito); affrontare la violenza ideologica dei furiosi custodi di verità dogmatiche, era difficile e per giunta pericoloso. Ma il coraggio intellettuale è consustanziale al revisionismo. Ripetere banalmente le convinzioni diffuse conviene: non fa correre rischi, evita la fatica del ragionamento e dell’accertamento, soprattutto conforta con l’avvolgente comodità del già noto; in questo modo, la ricerca presenta il vantaggio di non far passi avanti. Nolte è morto da ultimo, dopo Furet e De Felice. Nell’ambito dello studio e della riflessione sul Novecento sono stati i testimoni più coraggiosi della necessità di una continua battaglia antitotalitaria.

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Mario Avagliano per Il Messaggero

Il principe della corrente revisionista della storia del Novecento o uno storico coraggioso che ha rotto il muro del conformismo su quel periodo così controverso? Il tedesco Ernst Nolte, scomparso ieri Berlino all’età di 93 anni, è stato almeno fino a un certo punto sia l’uno sia l’altro, in modo a volte contraddittorio e fuori dai canoni, strizzando però troppo l’occhio al negazionismo nella fase discendente della sua parabola di studioso.
Originario di Witten, nel Nord Reno-Westfalia, nel gennaio 1923, Nolte nasce filosofo, laureandosi a Friburgo e avendo maestri del calibro di Martin Heiddeger e Eugen Fink, con il quale nel 1952 consegue il dottorato con una tesi sull’idealismo tedesco e Marx. Ma ben presto si dedica alla ricerca storica, diventando professore emerito di storia contemporanea all’università di Marburgo e alla Freie Universitat di Berlino.
Il suo primo saggio, intitolato Il fascismo nella sua epoca (tradotto in italiano in I tre volti del fascismo), esce nel 1963 e viene ben accolto dall’opinione pubblica di matrice progressista, che condivide la riabilitazione della categoria di fascismo come concetto storiografico a sé stante rispetto al totalitarismo, nelle tre versioni del pre-fascismo dell’Action francaise di Charles Maurras, del fascismo di Mussolini e del fascismo radicale di Hitler.
Nei due decenni successivi Nolte approfondisce e radicalizza la sua tesi sulle origini del fascismo, anticipandola a grandi linee il 3 giugno 1986 sul quotidiano Frankfurter allgemeine Zeitung, con un articolo intitolato Il passato che non passa e illustrandola l’anno successivo nel volume La guerra civile europea 1917-1945.

Rifiutandosi giustamente di considerare il nazismo come il male assoluto e ritenendo necessario analizzarlo come qualsiasi altro fenomeno storico, Nolte sostiene però che il fascismo e il nazismo costituiscono la reazione alla minaccia esistenziale rappresentata dal bolscevismo, proponendo quindi un nesso causale tra le due grandi ideologie totalitarie del Novecento: il comunismo e il nazionalsocialismo.
Per lo storico tedesco, la rivoluzione di ottobre del 1917 è la condizione necessaria per l’affermazione del fascismo, sia nella sua versione italiana, sia in quella radicale di Adolf Hitler. Il successo e il seguito del fascismo si spiegherebbero in quanto esso si oppone come controrivoluzione militante alla rivoluzione bolscevica, che dall’ex impero di Russia minaccia di diffondersi in tutta Europa.
Nella visione di Nolte, il nazismo sarebbe andato a scuola dal bolscevismo, perché ne adotta i metodi e le pratiche brutali. In questo quadro i gulag e lo sterminio di classe di milioni di kulaki da parte di Stalin precederebbero Auschwitz e la Shoah degli ebrei e ne costituirebbero anche, in un certo senso, la premessa indispensabile.
La tesi di Nolte provoca un acceso dibattito in Germania denominato Historikerstreit, controversia degli storici, i quali si dividono in due tronconi. Il principale critico di Nolte è il celebre filosofo tedesco Jurgen Habermas, che lo accusa di giustificazionismo nei confronti delle responsabilità della Germania e del popolo tedesco e di relativizzare l’Olocausto.

Da quel momento Ernst Nolte è considerato il capofila del revisionismo, subendo spesso attacchi, minacce fisiche (gli viene incendiata un’auto) e contestazioni, come avviene ad esempio nel 2009 a Trieste, dove il Comune lo aveva invitato a tenere una conferenza per il ventennale della caduta del Muro. E quando nel 2000 la fondazione dei cristiano-democratici tedeschi, la Konrad-Adenauer-Stiftung, gli assegna un premio per la letteratura, Angela Merkel, allora a capo del partito, si rifiuta di tenere la laudatio.
I limiti delle tesi di Nolte sono noti. Non convince la ricostruzione delle origini della guerra civile che ha coinvolto l’Europa fino al 1945 e la centralità attribuita alla rivoluzione russa del 1917, senza considerare la crisi del liberalismo, lo stravolgimento provocato dalla Grande Guerra e la precedente incubazione ideologica del nazionalismo, del pensiero antidemocratico e del mito biologista e della razza.
Inoltre Nolte, pur non negando l’Olocausto, derubrica e in qualche modo minimizza l’antisemitismo e il razzismo biologico di Hitler, inquadrando lo sterminio degli ebrei nell’ambito della reazione al bolscevismo. Una tesi resa ancor più discutibile dalle posizioni anti-israeliane dell’autore, che in interviste ed interventi pubblici non aveva esitato a porre in relazione, in modo poco ortodosso, bolscevismo, nazismo e sionismo. Un revisionismo che partendo da basi giuste (la necessità di studiare il nazismo e di non ignorare gli altri stermini e gli altri totalitarismi, a partire dal comunismo sovietico) era però pian piano scivolato verso il negazionismo.

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Francesco Perfetti per il Giornale
Nel 1963 Ernst Nolte pubblicò il volume Der Faschismus in seiner epoche (Il fascismo nella sua epoca), qualche anno dopo tradotto in italiano con un titolo infelice e fuorviante, I tre volti del fascismo. A quell’epoca Nolte aveva quarant’anni, essendo nato nel 1923, e aveva già cominciato a occuparsi di fascismo, sia pure da un’ottica più propriamente filosofica che storica: aveva scritto un bel saggio sulla influenza di Marx e di Nietzsche sul giovane Mussolini e, successivamente, un approfondito studio su Max Weber davanti al fascismo. Era un intellettuale, ancora giovane ma già affermato, che proveniva dagli studi filosofici. Era stato allievo a Friburgo di Martin Heidegger, cui avrebbe dedicato nel 1992 un importante volume, e aveva conseguito il dottorato in filosofia teoretica con Eugen Fink discutendo una tesi sulla dialettica nel pensiero tedesco. Proprio questa formazione filosofica di Nolte ne segnò profondamente il passaggio alla storiografia avvenuto con Der Faschismus in seiner epoche.
Fu, infatti, con questo volume che Nolte entrò a far parte della schiera degli studiosi più autorevoli del fascismo. Egli suggeriva un approccio storiografico diverso dalle linee interpretative correnti, tutte viziate, a suo parere, da pregiudiziali ideologico-politiche e pertanto prive di scientificità. Nella sua visione, il fascismo si presentava come un «fenomeno epocale» che aveva caratterizzato la storia europea nel periodo compreso fra le due guerre mondiali e aveva esercitato un influsso profondo sugli stessi avversari costringendoli a sviluppi paralleli e ripensamenti sulla propria natura e sulle proprie strategie. La definizione che ne forniva era, senza dubbio, nuova e originale: «Il fascismo è antimarxismo che tenta di distruggere l’avversario mediante l’elaborazione di un’ideologia radicalmente contrapposta eppure limitrofa, e l’impiego di mezzi quasi identici eppure dalle caratteristiche proprie, sempre però nei limiti insuperabili dell’autoaffermazione e dell’autonomia nazionali». Questa definizione implicava alcune conseguenze: che senza marxismo non si dà fascismo; che il fascismo è insieme più lontano e più vicino al comunismo di quanto non lo sia l’anticomunismo di marca liberale; che il fascismo ha in sé la tendenza a sviluppare un’ideologia radicale. Questa definizione consentiva di comprendere fino a che punto potessero darsi «graduazioni di fascismo» e permetteva di individuare «differenziazioni e identificazioni», ma appariva allo stesso Nolte non priva delle «debolezze stesse del metodo tipologico». Per superarle egli si propose di integrare l’analisi «tipologica» con l’adozione, in parallelo, del «metodo fenomenologico», cioè di un metodo che consentisse di comprendere i fenomeni storici - nella fattispecie il fascismo - a partire da se stessi, cioè a dire dalla propria ideologia. Muovendo da tali premesse, egli procedette allo studio comparato di tre esperienze chiave - l’Açtion Française, il fascismo italiano e il nazionalsocialismo - considerate come stadi dello stesso fenomeno e analizzate sotto il profilo della storia, della prassi e della dottrina.
A questo volume seguirono molti altri lavori, tra i quali, nel 1968, quello pubblicato in italiano nel 1970 col titolo La crisi dei regimi liberali e i movimenti fascisti scritto con un approccio più propriamente storico. Era, in un certo senso, la prosecuzione del precedente e legava la nascita del fascismo e il suo affermarsi sia alla prima guerra mondiale sia al fenomeno della paralisi, o autoparalisi, del sistema liberale nell’immediato dopoguerra. Proprio l’incapacità di tale sistema di mantenere il passo con lo sviluppo della società civile e di contrastare «la protesta radicale», rivoluzionaria e filobolscevica, ne aveva fatto, secondo Nolte, il «primo presupposto del fascismo». Donde la conclusione: «Non esiste fascismo senza la sfida del bolscevismo».
Una conclusione, questa, che egli avrebbe radicalizzato in seguito, in un nuovo volume, La guerra civile europea 1917-1945. Nazionalsocialismo e bolscevismo (1987, tradotto in italiano nel 1988). In questo denso saggio, che rappresenta il punto di arrivo della sua ricerca storica, Nolte, con ricchezza di argomentazioni, sostenne, fra l’altro, che il nazionalsocialismo era stato reazione o conseguenza dell’avvento del comunismo in Russia e che lo «sterminio di classe» messo in opera dai bolscevichi era stato il «prius logico e fattuale» dello sterminio degli ebrei da parte dei nazisti. L’opera era nata, invero, dall’esigenza di «tematizzare» sia la rivoluzione russa sia il rapporto fra bolscevismo e nazionalsocialismo visto come un rapporto di «simmetria nell’opposizione» ed era stata, in qualche misura, concepita come sviluppo delle tesi che, anticipate l’anno precedente in un articolo che aveva dato origine alla cosiddetta Historikerstreit, ovvero la controversia degli storici sul «passato che non vuole passare», avevano provocato polemiche ingiuste e ingenerose, se non addirittura diffamatorie, nei confronti dello studioso. Le polemiche erano state innescate dalla replica di Jürgen Habermas e avevano coinvolto i maggiori studiosi del nazionalsocialismo, da Fest a Broszat, da Mommsen a Hillgruber. Erano volate anche parole grosse: Elie Wiesel, per esempio, era giunto a parlare della «banda dei quattro» riferendosi, oltre che a Nolte, ad altri tre storici, mentre Marcel Reich-Ranicki era arrivato a definire Nolte una «figura torbida e spregevole della storia contemporanea tedesca».
Quando ebbe fra le mani il testo della prefazione che Nolte aveva preparato per l’edizione italiana del suo nuovo volume, il filosofo italiano Augusto Del Noce, col quale lo storico tedesco ebbe un lungo rapporto epistolare, gli scrisse una lunga lettera nella quale si legge: «Si è trattato veramente, negli anni tra il ’17 e il ’45, di una guerra civile europea, e movimenti come comunismo, nazismo, fascismo, non possono essere considerati isolatamente, come certa mentalità progressista che pur detiene le chiavi del potere culturale, così in Italia come in Germania (e lei ne sa qualcosa!), vuol fare. Sotto ci sono interessi pratici ben chiari: la revisione dell’interpretazione della storia contemporanea avrebbe contraccolpi filosofici molto seri. Investirebbe la stessa filosofia da cui questi progressisti prendono le mosse».
Ernst Nolte è diventato, nell’immagine comune, l’icona del revisionismo storiografico, al pari di altri studiosi come Renzo De Felice in Italia e François Furet in Francia. In proposito egli, in una lunga conversazione con Siegfried Gerlich, ebbe a precisare: «Io non mi sono mai definito un revisionista, ma ho sempre avvertito una certa differenza tra revisioni che sono indispensabili alla scienza storica, e scuole alle quali gli storici si associano, e che hanno un comune obiettivo politico che intendono promuovere attraverso varie revisioni. In questo senso non credo di dover essere annoverato tra i revisionisti». In realtà, Nolte fu uno storico nel senso proprio del termine, solo preoccupato di spiegare il passato al di fuori delle lenti troppo deformanti dell’ideologia e del politicamente corretto. La sua scomparsa lascia un vuoto incolmabile nella storiografia contemporanea. E, un senso di amarezza e di nostalgia in chi ebbe occasione di conoscerlo, frequentarlo e apprezzarne anche le doti umane.


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Giancarlo Bosetti per la Repubblica
Con Ernst Nolte scompare il protagonista, il promotore, il centro, ma anche il bersaglio della Historikerstreit, la cosiddetta “disputa tra gli storici”, una durissima polemica culturale e politica che si è estesa molto al di là dei professionisti della storiografia e ha coinvolto a lungo intellettuali, politici e opinione pubblica alla fine degli anni Ottanta e oltre. Tutto è cominciato con un suo articolo sulla “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, il 5 giugno del 1986: “Il passato che non vuole passare”. Alla domanda da dove fossero scaturiti Hitler e il nazionalsocialismo Nolte rispondeva con la tesi che essi erano stati una reazione
alla “minaccia esistenziale” per la Germania rappresentata dalla Rivoluzione russa del ’17; introduceva così una catena causale che non solo faceva precedere il bolscevismo al nazismo e i gulag staliniani ad Auschwitz, ma modificava radicalmente il quadro delle responsabilità politiche e morali presentando la Germania hitleriana in una luce difensiva rispetto a un fattore aggressivo esterno. L’articolo, che l’anno dopo sarebbe stato seguito dal libro La guerra civile europea, 1917- 1945, Nazionalsocialismo e bolscevismo, scatenò forti reazioni intellettuali e provocò un intenso confronto sul nazismo e sui rapporti tra i due totalitarismi, prima di tutto in Germania, ma con importanti sviluppi in tutta Europa. Tesa ed esistenzialmente coinvolgente è stata la discussione in Germania. L’uscita di Nolte appariva subito un attacco al cuore della cultura della Bundesrepublik, che aveva messo le basi nelle istituzioni politiche e nella cultura del nuovo corso tedesco.
Jürgen Habermas interveniva sulla Zeit già l’11 luglio con un articolo intitolato “Una specie di transazione sui danni”. Qui prendeva di mira Nolte e l’intero gruppo degli storici vicini a lui: Hildebrand, Hillgruber e Stürmer, accusandoli di apologia storica del nazionalismo tedesco, di interrompere l’apertura a occidente della cultura democratica nazionale che aveva piantato le sue basi nel ’45. Li accusava anche di fare dell’Olocausto e del potere nazista un corpo estraneo alla storia tedesca, vista come un corso maestoso, un Sonderweg, un tracciato speciale dettato dal destino geografico (secondo le tesi di Stürmer). In questa visione le cause di quegli eventi alieni si spiegavano con un fattore esterno, così come Benedetto Croce per il fascismo aveva parlato di “invasione degli Hiksos”. In questo caso però la radice del male non erano gli inspiegabili Hiksos, ma il bolscevismo e la reazione psicologica, ideologica che esso aveva innescato nella società, nella politica tedesca e nella mente del Führer.
Il peccato più pericoloso, da scongiurare era quello del nazionalismo, che, secondo Habermas, nelle pagine degli storici pro-Nolte si riaffacciava insieme al militarismo. Un prodotto collaterale delle posizioni perorate da questo gruppo era infatti la riabilitazione della Wehrmacht, dell’orgoglio nazionale e l’abbandono della cultura della colpa e dell’espiazione che la classe dirigente tedesca aveva invece coltivato intensamente. Nella discussione che è seguita gli schieramenti non si sono divisi secondo linee rigide, e la caduta del Muro poco dopo ha parzialmente rimescolato le carte.
In Italia quel libro di Nolte era uscito nell’88 con il titolo Nazionalismo e bolscevismo e con una introduzione critica e problematica di Gian Enrico Rusconi. Questi scriveva: «Si espone ad una ambiguità che percorre sottilmente tutta l’analisi: la pretesa nazionalsocialista di essere la difesa della civiltà occidentale contro la barbarie asiatica e bolscevica è un colossale inganno da smascherare, o è una motivazione da prendere in seria considerazione per spiegare (non necessariamente giustificare) il comportamento dei nazisti?». Per Rusconi il precedente storico della violenza bolscevica non bastava certo a dimostrare il nesso causale e anche le affinità e analogie tra i crimini di Stalin e quelli di Hitler non costituivano prove sufficienti a sostegno della tesi: da A scaturisce B. Ma già il fatto che si accettasse un approfondimento critico sul piano accademico non mancava di provocare risentite reazioni a sinistra.
Specialmente fuori dal contesto tedesco, e dopo l’89, l’eredità del revisionismo di Nolte, ha contribuito in qualche misura a uno sviluppo dell’esame comparato delle responsabilità storiche tra i due totalitarismi del Ventesimo secolo. Ma qui non abbiamo un debito più sostanzioso con Hannah Arendt e le sue Origini del totalitarismo?
Non si può comunque ridurre il lavoro di Nolte, al solo tema del “nesso causale” comunismo- nazismo. Ho ascoltato una sua lezione a Locarno negli anni Novanta sul metodo del “revisionismo” nella ricerca storica dalla quale appariva la profondi- tà della sua riflessione e anche una moderazione intellettuale in contrasto con l’immagine partigiana che di lui avevano dato le pagine dell’86 e dell’87 e le polemiche seguite. Celebrando i suoi novant’anni, tre anni fa, la Zeit presentava Nolte tanto come storico quanto come “pensatore della storia” secondo il quale un modo pragmatico di spiegare i fatti ha bisogno di più filosofia nell’interrogare l’oggetto che si è scelto e che per l’epoca in cui è vissuto era un oggetto quasi obbligato: il contesto di guerra, il fascismo, il nazionalsocialismo e il comunismo. Laureatosi, da filosofo, con una tesi su Marx, Nolte si è dottorato con un lavoro su Il fascismo nella sua epoca considerato uno standard di riferimento per la ricerca sul tema. Accreditato dunque sul piano scientifico per lo spessore dei suoi lavori, non si può dire che Nolte abbia attenuato la provocazione della sua tesi causale. In occasione del conferimento del premio Adenauer nel 2000, c’è stato un ritorno di fiamma, anche perché mentre gli organizzatori della cerimonia hanno evitato ogni riferimento ad aspetti controversi del suo lavoro, lui ha preso la parola per ribadire che i sostegni manifestati dagli ebrei per il comunismo hanno fornito “motivazioni razionali” all’antisemitismo nazista.
Nonostante dunque alcune affinità nella determinazione ad affrontare il tema comparativo delle responsabilità tra comunismo e nazismo, François Furet, che pure ha pubblicato un volume con Nolte di discussione su Fascismo e comunismo, ha criticato la tesi causale, sostenendo che quell’idea di una influenza comunista sugli eventi in Germania dopo il 17 può tutt’al più spiegare una parte del fenomeno nazista.
L’obiettivo di Nolte era quello di togliere dallo stato di eccezionalità gli eventi della storia tedesca tra il ‘33 e il ‘45 e di cancellare “il passato che non passa”, collocando l’Olocausto sullo stesso piano dei crimini staliniani; di più: facendo del primo un male minore rispetto al male maggiore, al male assoluto, lo stalinismo.
Dal punto di vista della causalità la generalità degli storici respinge Nolte e fa osservare che le fonti dell’antisemitismo di Hitler sono anteriori alla rivoluzione del ’17. Collocare la Germania di Hitler dalla parte delle vittime del XX secolo era la missione impossibile di Nolte. Ridefinire il bilancio morale delle responsabilità tra comunismo da una parte e fascismo e nazismo dall’altra era invece un’opera possibile e necessaria.
E Il libro nero del comunismo, a cura di Stéphane Courtois, del 1997, l’ha compiuta con il lavoro di un gruppo di storici tra i quali diversi allievi di Furet, ma difficile dire abbia un debito con lo storico tedesco, dal momento che nulla concede alle tesi sulle responsabilità degli ebrei, che è davvero difficile non definire antisemite.