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 1916  febbraio 27 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

(Leggi qui la puntata precedente)

Capitolo XVII

La mamma è morta!
Non poche volte la madre aveva veduto il tiglio tornare. Ora egli aveva tutti assai belli abiti nella sua valigia; biancheria fina, scarpe con la mascherina di camoscio; e quando passava, lui e ogni sua cosa sapeva di buon profumo.
O Natale con la prima neve, o Pasqua con le prime viole, trascorsa ancora con mamà nella povera casetta!
Veramente lo meravigliava sentire la mamma dirgli, come una volta: «Aquilino, lèvami un secchio d’acqua dal pozzo» o dire: «Aquilino, va dal macellaio e prendi una libbra di carne;» e più lo meravigliava vedere le sue mani attingere l’acqua dal pozzo. Ed al mattino udiva ancora con istupore la voce della mamma, forte: «Vengo, vengo!» e poi la sentiva giù, su la porta della casetta, contrattare dimesticamente la bella verdura e il bianco latte così come una volta.
Però, se non fosse stato per rivedere mamà, non sarebbe tornato al suo paese; e sapeva che la gente diceva di lui: «Il figlio della vedova potrebbe darsi meno arie, perché si sa che egli è a servire».
Ma una volta il figlio era improvvisamente tornato alla sua casa: la mamma era improvvisamente caduta inferma, e gli occhi della madre non lo videro, che come ombra. La mano di lei però stette nelle sue mani, accanto al letto, per tutta la notte. Ma anche la mano un poco per volta si era spenta, come si era spenta la voce, come si era spenta la pupilla.
In quelle due stanzette dove Aquilino aveva sognato una continuazione di vita senza mutamento, era arrivata l’Ora che non è attesa e pur deve arrivare! ed allora Aquilino meravigliò vedendo che l’orologio di mamà morta continuava pur la sua continuazione del tempo, e la Madonna – lì sul comò – non si era mossa.
E per tutto quel giorno che la mamma morta giacque nel suo letto, egli guardò attorno quella camera che ora gli pareva strana e nuova. Pure avrebbe voluto conservarla intatta così come era, quella camera, e non per breve tempo, ma per molto, ma per un tempo senza limite.
«Dei figli – meditava con la testa fra le mani – che avessero questa religione da conservare, e poi dei figli dei figli…».
Perché la religione è la vittoria contro la morte.
Ma poi – dopo assai tempo – si tolse da quella meditazione, e gli insorse un furore di tutto distruggere in quella camera. E pareva empietà.
E volle che la bara fosse grande, più grande, assai grande! e dentro tutto depose: i pannilini antichi di lei, con la sua cifra; alcuni merletti che le mani di lei, giovanotta, lavorarono; e i santi tutti, e Cristo; e i ritratti tutti; del babbo, di una sorellina adorata che era morta, e i balocchi di lei, che la mamma serbava come sacri (e nessun occhio profano aveva più veduti dopo che la bimbetta era morta, in quella campagna). «Lì, lì, sul tuo cuore, nel tuo cuore!» – diceva Aquilino —, ed i ferri della calza incominciata, e la sua piccola lampada, e il cuscinetto antico di raso verde, che odorava di verbena antica. E la Madonna, non ci stava! «Poter spezzar la Madonna! Oh, famiglia, famiglia, famiglia morta!».
E allora vennero i vicini, che avevano udito grandi urli e pianti.
Ed alcuni dicevano che non piangesse; ed altri invece dicevano che piangesse, perché il pianto lo avrebbe liberato dal dolore.
Si acquetò alfine.
Ora contemplava la madre dormente nel feretro, con istupore.
Un sentimento nuovo e strano veniva ora sorgendo entro di lui. E non lo distingueva da prima se non come alcunché di mostruoso. Alfine distinse: «Ora che mamà è morta, io sono libero!» Un senso di liberazione: una visione lucida, rettilinea della restante sua vita. «Tutto è stato sepolto: ora io sono libero. Se a me piacerà, io sarò libero sino al delitto, se voglio. Chi mi sarà giudice?».
E il petto gli si sollevò.
E quando vennero, poi, gli uomini della morte, meravigliarono del grande peso del feretro.
«Anch’io vi sono sepolto. Io son morto e poi sono rinato».
Così il feretro passò il limitare: quel limitare da cui ella salutava lui nelle dipartite con quella sua mano: quel limitare dove lo attendeva ai ritorni. E quando veniva al mattino la rubizza ortolana, a portar le primizie, era ancora su quel limitare che ella scendeva gioiosamente.
Ora ella passava il limitare in quel feretro, e la gente passava come prima per le strade della città.
E nella chiesa vide quel feretro posato sulla terra, e quattro candele ai lati. Stupì nel vedersi solo anche lì, con quel feretro. Dunque non sapevano nella città che mamà era morta? Un piccolo mormorio di preghiere lo riscosse. Erano alcune donne in scialle nero; conoscenti di mamà, forse.
Una di quelle si fece avanti, e disse che ella era colei che al mattino, col sole ridente, veniva a portare a mamà pimpinella, fava fresca e lattuga.
E poi sentì che diceva: – Sicuro che la rivedremo ancora! Oh, se non fosse così, allora poi? Quanto bene le voleva la sua mamma, signor Aquilino!
Ed a queste parole gli rinacque il pianto lì in chiesa; e vide un prete parato che, meravigliando, lo guardava.
Ora Aquilino andava avanti per una via di campagna, che discendeva il vespero già, verso il Camposanto. Sentiva l’odore del biancospino novello, e una croce dorata precorreva. Il sole – cadendo – raggiava, e i cipressi del Camposanto sorgevano accesi nell’oro del cielo. L’oro della croce, l’oro del cielo: un sogno! come un angelo con le ali spiegate. E gli parea di vedere una scritta nel cielo che diceva: «Tanto più splende l’angelo del Signore quanto più la bara è deserta». Pensava a quelle fallaci parole della vecchia ortolana. E questa fallacia gli parve, per un istante, più grande delle più grandi verità, perché tutte le cose che aveva messo nella bara non dovevano essere dissolte; e la parola che vince la morte, è la più grande parola! Poi, nell’enorme stanchezza, il pensiero gli si assopì in un torpore mortale: fallacia e verità si confondevano insieme.
– E voi – disse il dì seguente Aquilino alle donne, e alla femminetta che portava pimpinella a mamà, – queste cose prendete, (Indicava tutte le masserizie rimaste nelle due stanzette).
E stupiva di sé. – Prendete, portate con voi. Bruciatele se vi pare; ma non date in vendita in piazza. – E sentiva come una ripercussione di dolore ad ogni urto che le povere masserizie facevano, smovendosi e come morendo esse pure.
Così la stanza fu vuota. Ed allora venne un uomo, il quale umilmente domandò udienza per una piccola cosa.
Lo richiese chi fosse.
Era il sacrestano, appunto, di Don Malfattini. Egli levò da un portafoglio e presentò un foglio intestato debitamente a stampa, e vi era scritto: Parrocchia di Santa Maria Addolorata, Dare, Avere.
Era il conto delle spese dei funerali. Aquilino aveva pagato altro, altri, non sapea chi, non ricordava dove; negli uffici del Comune, ecco! ma quelle spese di chiesa, sì, non aveva pagato e non conosceva, onde prese quel foglio che l’uomo porgeva.
– Lei deve scusare, anzi, – diceva frattanto l’uomo. – Il signor arciprete, di solito, aspetta sempre a mandare la lista; ma siccome, salvo il vero, abbiamo sentito dire che lei da queste parti non tornerà tanto presto, così per regolarità, anche per lei… E c’è anche il bollo con la firma, e tutto in regola. Vuol dire che se trovasse qualche osservazione da fare, si può sempre intendere con il signor arciprete...
L’uomo parlava, parlava, perché lui taceva e guardava la lista.
Che strana, che terribile, che folle impressione!
Pagare!
E suo malgrado Aquilino parlò, anzi minutamente si soffermò a parlare.
– Venticinque franchi le candele, buon uomo?
– Vedrà che dice – disse l’uomo allungando un sòrdido dito verso la lista: – Candelotti di cera vergine, del peso di libbre quattro catuna. Ve ne sono anche di minor peso...
– E dite, onesto uomo, dove sono essi i candelotti, che vennero subito spenti?
– Sono – rispose – di diritto della parrocchia e servono, poi, per i funerali di quelli che non possono spendere. E poi lo domandi a tutti, perché questo è l’uso.
– Dunque voi fate qualche cosa anche gratis?
E Aquilino contemplava tutt’all’intorno l’uomo nero e domandò ancora:
– Dunque dicevamo?
– Settantacinque lire, signore.
– E non vi sembra un poco caro?
– Oh, signore, si vede che lei non ha pratica! Vi sono di quelli che vogliono fare le cose in regola, e che spendono migliaia. Anzi si può dire che Don Malfattini le ha usato riguardo...
– Davvero?
– Davvero! Veda: i pregadii, che mai non si mettono meno di dieci lire, qui sono segnate otto
– Che sono i pregadii, buon uomo?
– Sono quelli scritti che si mettono qua e là della bara e vi è scritto. Pregate Iddio per l’anima…
– Ho capito. E chi li fa?
– Io, signore.
– Allora voi siete in rapporti con Dio...
L’uomo nero guardava Aquilino con commiserazione.
– Dunque dicevamo, buon uomo?
– Settantacinque lire.
– Ecco!
Erano carte nuove che il giovane lasciava cadere su quelle mani, evitandone il contatto come un’abominazione.
L’uomo nero le palpò quelle carte, le ricontò.
– Temete che il danaro dei poveri sia falso?
– Noi contiamo sempre il denaro. E che sono così nuove. – E sorrise col suo riso idiota.
– Andate, andate buon uomo.
« Dopo di che – mormorò Aquilino quando il treno si mosse – sii maledetto anche tu, vecchio paese che i vecchi chiamavano patria».
Era un po’ingombro di roba lo scompartimento del treno del ritorno.
Per piacere – disse un signore ad Aquilino, – un po’di posto su la reticella.
Aquilino portava con sé, realmente, un oggetto alquanto ingombrante: la Madonna di mamà.

Capitolo XVIII


Bobby felice
Nei primi tempi, dopo la morte della mamma, Aquilino aveva ogni tanto la sensazione dolorosa, simile a un arto del suo corpo, che gli fosse stato avulso. Guardava nel mondo: e gli pareva che vi mancasse qualcosa. Alle volte come un fantasma gli era vicino: la mamma.
In quella dolorosa occasione tutti furono molto gentili con Aquilino: la marchesa volle sapere come la cosa era andata; ascoltò con occhi buoni, e quando vide che Aquilino ad un certo punto del racconto si intoppava, trovò certe parole tutte belle e conclusive, per cui ella se ne andò prima che quella specie di irrigidimento si trasmutasse in pianto.
Del resto la marchesa non avrebbe avuto difficoltà ad accordare ad Aquilino qualche settimana di licenza perché viaggiasse e si svagasse un po’. Ma essendo già ai primi del maggio, si prospettavano i prossimi esami di Bobby.
Aquilino ringraziò; ma no, egli non desiderava viaggiare. Se mamà fosse morta lì, oh, allora! Ma lì non c’eran ricordi. Anzi lo studiare quelle semplici cose con Bobby lo avrebbe distratto.
Il conte Cosimo mandò una lettera molto affettuosa: e sarebbe venuto lui a confortarlo; ma non istava punto bene; e ne era prova che, come fa ogni bestia ammalata, si era rifugiato nel suo vecchio nido: una gran casa antica nella sua città.
Anche Bobby si mostrò gentile. Le pupille del giovinetto, alla vista del gran lutto del suo precettore, apparvero per la prima volta impressionate.
Guardava quel nero, come se quel nero fosse stato al contatto di una cosa di cui Bobby sapeva appena il nome: la morte.
Domandava con premura ogni mattina: «Come sta?» quasi che il male della morte fosse stato una specie di raffreddore.
Ma Aquilino, che aveva deliberato di non recarsi più nella torre di Albraccà, vi si recava sovente. Non che il marchese Ippolito gli permettesse di parlare della sua cara mamma, e della sua casa che non era più!
Il marchese parlava sempre lui, e non ascoltava che le sue parole. Ma certi suoi aberranti ragionamenti gli addormentavano il dolore o parevano far scomparire il suo dolore in un più gran dolore.
Il marchese don Ippolito offriva anche da bere theologaliter, e questo pure era un bene.
– Mio nonno è morto, mio padre è morto – diceva —, mia madre è morta. Per fortuna, la mia memoria, a cagione della lontananza, non li vede più! Io morirò. E allora? Caro maestro, lei è giovane, ma le cose procedono lo stesso così, anche se siete giovani e non le vedete.
Alle volte erano spunti stravaganti ed inattesi: il passerotto.
– Questo stupido animale, secondo voi, maestro, quanto tempo ha? Tre mesi? Un anno? Voi lo dite! Io dirò che ha cinquemila anni, come le mummie d’Egitto. È lo stesso passero che esisteva cinquemila anni fa. Che differenza c’è? L’esistenza dell’individuo è una astrazione dell’uomo. Questo passero è un passero del tempo di Radamès; e nulla vieta che io mi possa credere un contemporaneo di Nabucodonosor. L’usignolo canta agli amori di Giulietta e Romeo. L’importante è che esistano i rosignoli. Se non è più quello di prima, cosa importa? La gallina fa l’uovo; la formica raccoglie i cadaveri; il nibbio divora l’usignolo; il verme ara la terra. Sempre così. E l’uomo? L’uomo fa le classi, i generi, le specie, i molluschi, i vertebrati, l’evo medio, l’evo moderno. Ci credete voi?
Avete mai pensato come è ridicolo l’uomo che viaggia? Sempre si trova in un punto del globo terracqueo egualmente distante dal centro. Tanto vale allora rimanere fermi qui. Sapete? Nei tempi di Omero, che si credeva il mondo fatto come una tavola, poteva essere interessante viaggiare con la speranza di arrivare all’orlo della tavola. Ma adesso che dicono che il mondo è fatto come una palla, non c’è più sugo. Hanno trovato oggi il modo di elevarsi cogli aereoplani. È qualche cosa! Ma quest’uomo colla benzina è assolutamente inferiore al mio passerotto: il quale comprende così bene la inutilità anche di aver le ali, che preferisce stare qui.
E con tutto questo voi giovane desiderate il futuro sperando in esso quel bene di cui finora non avete goduto; e benché siate maestro o professore, non vi avvedete che desiderate la vostra disfazione. Rimane l’amore: una cosa sozza! ma l’uomo non se ne avvede alla vostra età, e forse a nessuna età. Ma tu considera che anche le belle donne sono transito di cibi; guaina di corruzione, e potrai dominare un po’la concupiscenza.
Ma più insistenti erano i richiami sulla morte.
Il cavallo morto.
Il cavallo, uno dei cavalli di un enorme carro da trasporto, era caduto improvvisamente fulminato giù nel cortile. Il marchese volle che Aquilino scendesse con lui ad osservare il cavallo morto.
– Vedete – dicea – come si sta in pace! Osservatelo attentamente e poi ditemi se anche in voi non sorge questo dubbio: il vero stato di perfezione è il non essere, ovvero l’essere? Certamente ora riposa. Il grave carro che esso doveva trainare, eccolo là. Voi lo vedete! E l’altro cavallaccio dalle gambe difformi, vedete come si sta profondamente meditabondo? Sembra pensare. E quel grosso diavolo del carrettiere che è lì avvilito in contemplazione della sua bestia morta, osservate che faccia da idiota. Ha in mano la frusta, e non può frustare. Non vi pare di scorgere un risolino ironico in quel dente che spunta fuori dal muso del cavallo morto? «Tu, o padrone, non mi frusterai più. Te l’ho fatta!» Non dite niente, o maestro, di tutto questo al carrettiere. Non vi capirebbe; forse vi risponderebbe in malo modo. Gli uomini hanno bensì maggior giudizio degli animali, ma hanno anche più errore.
Così ed altre coserelle che non istavano né in cielo né in terra, andava dicendo il marchese; e non facevano dispiacere ad Aquilino perché quando l’uomo è in qualche grave afflizione, si compiace se altri gli prova che non esiste ordine buono né in terra né in cielo.
Ma nella sua cameretta, fra quei mobili tutti bianchi e laccati, che effetto faceva quella antica Madonna scura che egli aveva posato sopra un comò. O madre di Dio, chi avrebbe eletto che avresti fatto così strano viaggio! E lì veniva anche l’immagine della mamma, perché la lontananza del tempo da quando la mamma partì, era poca e perciò egli sentiva ancora il dolore e vedeva ancora l’immagine.
Una volta ci sorprese miss Edith, la quale guardava con curiosità, con quei suoi occhi azzurri.
Ella pareva avesse un suo cotale pensiero che non sapeva come esprimere.
Ella infine disse: – Voi in Italy avete tante Madonne! Madonna del Rosario, Madonna della Concezione, Madonna dell’Assunta...
Però il piccolo bebi, Gesù Cristo, gli pareva grazioso.
E col dito si posava sul vetro della tavola nera; quel dito della morbida mano, posato lì dove si era posata la povera mano di mamà.
Che strano viaggio aveva fatto la Madonna!
E stando ella così un poco china, Aquilino aveva sotto di sé quella capellatura; e ne vaporava un profumo, che non pareva un artificioso profumo. Ella era così giovane, così graziosa che – o maraviglioso inganno! – non parea che anch’ella fosse guaina di corruzione, ma anfora di giovinezza.
– Già, miss Edith, – disse Aquilino. – la Madonna, la donna assunta nel cielo.
Ella indugiava lì davanti al quadro. Un bisogno di chinarsi su quella testa, di sfiorare quella capellatura con un bacio… Davvero,
poco mancò che non commettesse una sciocchezza davanti alla Madonna! Non la commise: ma non perché si fosse in quel momento ricordato del saggio consiglio del re Salomone, raccomandatogli dal marchese. Aquilino non aveva più casa né focolare; e quella dolce creatura di miss Edith gli parve casa, focolare, famiglia. L’anima di lui si incendiò di gioia e di lagrime. Ma che ne sapeva, povero marchese, della donna?
E intanto si avvicinava il tempo degli esami! La marchesa aveva ordinato che Bobby doveva essere promosso alle prime prove, e quell’anno più che mai, perché la marchesa, Bobby e miss Edith avrebbero passato tutta la state all’estero, e la marchesa non voleva preoccupazioni. Bobby era preparato, anche: ma ad Aquilino tremava il cuore come ad un avvocato che ha per le mani una causa giusta da sostenere, e ben si sa che è quando le cause son giuste, che è molto facile avere sentenza contraria. E d’altra parte correvano voci sinistre: il professore del ginnasio pubblico, sotto il cui ferro doveva cadere Bobby, era un giovanotto di nuova nomina un po’sbarazzino, e lo aveva fatto sapere: «Guai a chi non sa bene la grammatica latina! la storia latina! la grammatica italiana!».
Non che costui fosse un purista, un latinista, un classicista. Era un modernista, anzi! E l’instauratio ab imis fundamentis della società gli stava a cuore più assai del latino; ma quel guai era un mezzo di esercitare, nel limite delle sue facoltà, la guerra sociale specialmente contro i signorini privatisti, i privilegiati che sdegnano le scuole pubbliche, che hanno il ben pasciuto precettore in casa. Oh, li avrebbe pettinati lui!
Quanto sudò Aquilino in quell’estate!
Bobby era beato. I laghi della Scozia! Il paradiso incantato dei laghi della Scozia dove sarebbe andato con mamà! Il paese di miss Edith. «Auf, che caldo qui, ma lassù in Iscozia…! Le manderò cartoline fresche fresche».
E per combinare quel guai con gli ordini della marchesa, gli convenne anche ambìre, come dicevano i latini: conoscere quel professore, dargli ragione in tutto, ricordargli che anche lui Aquilino lavorava per affrettare l’arrivo, al calendimaggio, dell’istauratio ab imis; ed anche dovette fare una parte del tutto indecente: quella del servo infedele, dire cioè un po’male dei suoi signori, che gli davano il pane e il companatico.
Il professorino ne godeva: – Ah, io sono indipendente, indipendente – diceva.
– Forse un po’troppo! – pensava Aquilino.
Una mattina del mese di luglio, e per l’appunto il dieci di luglio, Bobby saltava dalla contentezza come un vero saltamartino.
Cettivaio, per sua fortuna, in quell’estate, cadeva a pezzi, esausto dalla lotta contro gli inglesi, e perciò non offriva più resistenza agli assalti di Bobby. Ma anche Aquilino era esausto.
Si adagiò su di una poltrona, si asciugò l’abbondante sudore; ma, grazie a Dio, era salvo, in fine.
La tabella esposta quella mattina nell’atrio del Regio Ginnasio Liceo, recava Terrechiara Roberto, idest Bobby, promosso. Oh, ma attorno a Roberto, una strage!
Tutti i nobili amici di lui, privatisti come lui, tutti mortalmente caduti! Egli ne ripeteva i nomi, con esuberante letizia: Un record!
Lui solo, ritto!
Aquilino dovette tenere Bobby per mano durante tutta la strada del ritorno, Gli pareva di essere un villano che mena alla fiera un vitello, o un puledro giovane.
Quando fu giunto a casa, gli diede la molla. – Ora salta fin che vuoi – disse fra sé.
Oh, ma la signora marchesa non ne dubitava che il suo Bobby sarebbe stato promosso! Così naturale! Ma Aquilino solo sapeva quello che gli era costato salvare Bobby dalla strage. Quanta eloquenza (e la persuasione, e la perorazione, e la mozione degli affetti) dovette svolgere, seguitando su e giù pel corridoio, quel monosillabico scuro regio preside!
E tutto questo per persuadere quel signore che se poenitet invece di illuni poenitet, è errore sì, ma errore veniale e non mortale, così che il signor professore di latino sommando tutti gli errori, i mezzi errori, i quarti di errore, doveva arrivare ad un cinque e tre quinti. Ora se egli metteva a Bobby cinque soltanto. Bobby veniva defraudato di quei tre quinti; ai quali se per magnificenza del signor preside fossero stati aggiunti due quinti, si arrivava al sei, cioè alla salvezza, cioè al colle della beatitudine nella Commedia degli esami di ciascun scolaro.
Più dolorosa fu la umiliazione davanti al signor professore di matematica (tutti fatti su di uno stampo quei professori di matematica!) Aquilino gli si protestò umilmente convinto che il non sapere trovare bene il minimo comune multiplo è un fatto grave, gravissimo; e perciò giusta causa di rimandare un allievo al mese di ottobre. Ma ben è vero che Bobby in tale caso avrebbe sofferto ingiusta pena, perché tutta la colpa era sua, della sua presunzione, che aveva voluto istruire il giovinetto anche nelle matematiche: me poenitet, illum poenitet! Ma, per amor del cielo, mutasse il signor professore quel lugubre segno algebrico del cinque in un simpatico sei, che l’anno venturo, deposta ogni presunzione, gli avrebbe affidato Bobby e lo studio sulla aritmetica ragionata.
Se il signor professore vive anche fuori della scuola, osserverà che il non saper trovare il minimo comune multiplo, è un fatto che si verifica spesso.
Ora Bobby dopo aver saltato ad abundantiam, si preparava a collocare in una profonda tomba i libri della sua adolescenza.
«Gothardbahn! Saint-Moritz! Calais! Ostenda, Inghilterra, Scozia», erano le parole che squillavano sulle sue labbra.
Non si aspettava per partire che la promozione di Bobby.
Molti imponenti bauli erano già pronti in anticamera. Fra quei bauli, aristocratico, enorme, nero, era il baule di miss Edith.
Il giovane guardò a lungo la camera, ora disfatta, di miss Edith. L’anima delle piccole cose, delle care eleganze di lei era sparita.
– Non tornerà più, miss Edith, in Italia? – le domandò Aquilino.
– Forse che sì, forse che no – rispose sorridendo.
La marchesa fu più esplicita: – Forse che sì.
Il senatore aveva quasi assicurato il posto a miss Edith. E quando un uomo, come il senatore, propone allo Stato una data partita, lo Stato compera.
Aquilino questa volta baciò Bobby. Bobby era in abito da viaggio, ma non saltava più.
– Cos’ha Bobby?
– C’è paparone che non voleva che io partissi.
– Perché, Bobby?
– Perché… E Bobby nominò un’altra cosa, della quale non soltanto lui, piccolo fanciullo, ma quasi tutte le generazioni degli uomini null’altro oramai più sapevano se non il nome…Perché lui, paparone, ha detto alla mamma che ci sarà la guerra.
– E mamà?
– Mamà ha detto che paparone sogna sempre e seguita a sognare.
– Good-bye – disse all’ultimo momento miss Edith, gaiamente, fissando Aquilino con i suoi occhi chiari.
E quella parola straniera gli stette nel cuore come un profumo di lei.