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 1916  febbraio 27 Domenica calendario

La nostra azione sul Carso

Queste impressioni di Aldo Molinari, nostro inviato speciale al fronte, sono un commento alle magnifiche fotografie ch’egli è riuscito a cogliere al fronte e di cui abbiamo iniziato la riproduzione nello scorso numero. Il Molinari, noncurante dei pericoli e dei disagi, è riuscito a portarsi sull’estreme linee dei nostri posti avanzati, sul San Michele, a Oslavia, sulle pendici del Podgora, presso Tolmino, e le fotografie che andremo pubblicando costituiscono una documentazione impressionante del terreno e delle condizioni in cui si svolge la lotta. Osiamo dire, e i lettori ne potranno del resto giudicare, che nessuno fino ad ora è riuscito a dare della nostra guerra una visione grafica più pittorica, più viva e più veritiera. 

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Dal fronte, febbraio 1916
Recentemente un comunicato ufficiale, riassumendo i risultati territoriali dell’offensiva italiana, così terminava:
«Abbiamo scacciato l’avversario da tutta la vasta e popolosa pianura di riva destra dell’Isonzo. Infine, valicato il fiume, abbiamo infranto le poderose linee dell’avversario costruite lungo il margine del Carso, affermandoci saldamente su quell’altipiano».
La nostra azione sul Carso, pur avendo l’obiettivo diretto di aprirci la strada di Trieste, si connette strettamente alla più vasta e complessa azione offensiva contro Gorizia, il poderoso campo trincerato, che s’appoggia a questa formidabile testa di ponte, trova infatti i cardini della sua maggiore difesa, nelle posizioni naturali che la sapienza difensiva del nemico ha saputo mirabilmente sfruttare: Sabotino e Monte Santo a nord, il Podgora ad ovest, il massiccio roccioso, insormontabile del Carso a sud.
Prendere Gorizia, significa aver demolito completamente tutto questo complesso di elementi difensivi formidabili, che la proteggono. La necessità per noi di agire su un terreno estremamente difficile e protetto da ogni sorta di difese, delle quali la guerra attuale aveva dimostrato nei suoi primi periodi la grande efficacia; l’ostacolo che contrappongono al nostro slancio offensivo, le linee profonde di trinceramenti costruiti in calcestruzzo e cemento, e protetti da estesi ordini di reticolati: il fuoco concentrato d’innumerevoli batterie, abilmente dissimulate nelle roccie; rendono la nostra azione necessariamente lenta. Il terreno deve essere strappato al nemico, a palmo a palmo, a costo di sacrifici gravissimi e di sforzi magnifici, sapientemente combinati. A tutto questo lavoro immane di corrosione che si deve compiere, il nostro esercito si è accinto con fede e con valore. La sua opera quotidiana è incessante: le apparenti soste nelle azioni d’attacco, servono per coordinare i mezzi e per la preparazione intensa a nuove lotte.
In condizioni simili, mancherà sempre il conseguimento di un successo rapido ed evidente. Onesto successo, che non potrà mai essere il risultato immediato di una vasta azione tattica, o dell’urto delle masse dei due eserciti avversari, dovrà conseguirsi a grado a grado, con un’azione metodica e coordinata d’investimento contro le posizioni nemiche: in questo genere di lotta di posizioni, l’attacco violento sarebbe insufficiente, e porterebbe le nostre truppe ad esporsi inutilmente al fuoco sterminatore del nemico.
La visione reale di tutte queste difficoltà, la conoscenza diretta degli ostacoli formidabili da superare, fanno comprendere quanto sia aspra e dura la partita che è impegnata col nemico in questo settore, tra i più difficili del nostro fronte.
Coloro che nella comoda e tranquilla vita delle nostre città, troppo lontani dalla guerra per percepirne, anche indirettamente, gli echi e le sensazioni della lotta che vi si combatte, si abbandonano alla facile critica; che mormorano insinuando alla lentezza della nostra azione, sono degli ingrati e degli incoscienti. Costoro, per l’ignoranza assoluta che li guida negli apprezzamenti di una lotta difficilissima, uniti agli altri, cui un facile ottimismo fa prevedere sempre prossimi, irraggiungibili successi immediati, servono a creare nel Paese un pericoloso senso d’illusione, o compiono opera delittuosa di svalutazione della nostra guerra. Ambedue queste correnti sono deleterie alla sana compagine dell’opinione pubblica, ed è perciò doveroso combatterle con tutte le forze.
È necessario che tutti gl’italiani, che hanno dato e danno continue prove di alte virtù civili e morali, abbiano la visione esatta della realtà. Questa la possiamo fissare con orgoglio e con sicura fede nell’avvenire: l’opera finora compiuta dal nostro esercito, sta a dimostrarci come esso ben meriti della fiducia e dell’amore del Paese.
 
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Ho creduto necessario premettere queste brevi considerazioni d’indole generale, per poter più serenamente giudicare lo svolgimento delle azioni, lo scopo a cui esse mirano, e principalmente gli ostacoli che bisognerà ancora affrontare ed abbattere.
Come ho già precedentemente accennato, il Carso costituisce con il suo massiccio roccioso, il baluardo meridionale del campo trincerato di Gorizia.
Percorrendo le strade che si snodano nella vasta pianura friulana verso Gradisca o Sagrado o Monfalcone, il Carso vi appare in distanza, oltre l’Isonzo, in un aspetto ingenuo di collina: nulla del suo profilo ondulato e insignificante, che degrada dolcemente verso il mare, rivela le terribili asperità di quel terreno e l’insidie infernali ch’esso nasconde. Esso vi appare improvvisamente quando, valicato il fiume, vi trovate innanzi, insormontabile, la parete nuda, rocciosa, che forma il primo gradino dell’altipiano.
La vasta corona di paesi che bordeggiava alle falde del Carso, e che costituiva una nota luminosa di vita e di colore, sullo sfondo triste e grigio delle sue roccie, oggi non è più: Gradisca, Farra, Sagrado, Vermegliano, Ronchi, San Canziano, Staranzano, Redipuglia, Monfalcone biancheggiano nella pianura con le loro case sventrate: muri diruti e anneriti, colonne di fumo grigio che s’elevano calme e diritte verso il cielo; ultimi resti degl’incendi che l’hanno distrutte.
Si ha la sensazione che una grande convulsione tellurica abbia scosso, abbattuto quei paesi, spegnendovi ogni segno di vita: solo il sibilo rabbioso, agghiacciante di una granata che passa, lo scoppio lacerante di uno shrapnell, il ronzìo di un aereoplano che si libra ad altezza vertiginosa, il colpo secco della fucileria lontana vi scuotono in questo tragico silenzio, mentre camminate rapidi contro i muri, e l’eco del vostro passo affrettato si ripercuote ingigantito, dalle nude pareti delle case demolite dal cannone.
L’inverosimile asperità del Carso ha servito mirabilmente al nemico per opporci la più ostinata difesa. Quando le nostre truppe furono lanciate all’attacco, agivano nelle condizioni più infelici, aggravate dalla presenza dell’Isonzo alle spalle, mentre le artiglierie nemiche dell’altipiano ne battevano con tiri d’interdizione i ponti, ostacolando assai le comunicazioni con la riva destra del fiume.
Vedendo il vasto, roccioso gradino del massiccio. non si riesce a comprendere come i nostri soldati siano riusciti a scalarlo, sotto 1’infuriare di un fuoco concentrato di numerose batterie, e le raffiche micidiali delle mitragliatrici che battevano d’infilata i passaggi obbligati sul fiume.
La roccia nuda d’ogni vegetazione, non offriva riparo alle nostre fanterie, che, impossibilitate a scavarsi trincee su quel terreno pietroso, avanzavano allo scoperto.
La nostra azione offensiva sull’altipiano del Carso, condotta a più riprese violente, alla fine di giugno, alla fine di luglio e nell’ottobre-novembre, ha portato la linea delle nostre posizioni attuali fin quasi sulle cime del San Michele, ed a rasentare le case di San Martino.
In questa zona, nel novembre, l’azione eroica della Brigata Sassari portò all’espugnazione di un poderoso sistema di trinceramenti nemici. In quelle giornate memorande, vincendo le avversità tremende frapposte dalle pioggie dirotte, che trasformavano il terreno in un fiume ili fango, viscido e argilloso, i nostri soldati mossero all’assalto. La lotta in quel groviglio diabolico, divampò per più giorni, a più riprese, e con diversa fortuna. Gli eroici uomini delle nostre «Compagnie della morte» strisciavano nella notte, silenziosi, su quel fango rossastro, imbevuto di sangue, aggrappati alle asperità taglienti delle roccie nude, ad aprire breccie nei reticolati nemici: tutt’intorno un’oscurità profonda e un silenzio di tomba, grave, tenebroso, rotto di tratto in tratto dal bagliore vivo dei razzi luminosi o dalle raffiche rabbiose delle mitragliatrici nemiche. Così furono espugnate le trincee delle «Frasche» e dei «Razzi» che costituivano per il nemico elementi importanti della difesa di San Martino, e veniva contemporaneamente ampliata la nostra occupazione sul monte Sei Busi, verso Doberdò.
In quello stesso periodo del novembre, la nostra offensiva si sviluppava con successo sul versante settentrionale del Carso, verso il San Michele.
Le nostre linee, che erano successivamente avanzate da Sdraussina (20 ottobre) a Peteano (22-23 ottobre), si trovavano nel novembre ai piedi del San Michele. La lotta per cominciarne l’ascesa e l’occupazione delle cime s’accese allora furiosa. Il nemico s’era potentemente trincerato oltre il gradino formato dal terrapieno della ferrovia Monfalcone-Gorizia, che aveva minato: in posizione così dominante, egli batteva facilmente le nostre truppe che erano obbligate ad avanzare allo scoperto contro gli ostacoli terribili dei reticolati, che la nostra artiglieria cercava di distruggere con tiri precisi.
Avanti a quel groviglio sconvolto di ferro, di trincee nemiche abbattute, sembra miracoloso che degli uomini abbiano mosso all’attacco su quel terreno d’inferno. Non un metro di roccia è libero dalle traccie spaventose di quei combattimenti diabolici: buche profonde prodotte dallo scoppio delle granate di ogni calibro; reticolati sconvolti, abbattuti, che nel groviglio mostruoso dei loro ferri arrugginiti, trattengono ancora, macabra preda, brandelli di vesti lorde di sangue raggrumato; e dovunque, sparsi nella convulsione delle roccie rossastre frantumate dalle mine, sacchi da trincee, armi, utensili d’ogni sorta e di ogni foggia; lastre di ferro contorte; qualche nudo tronco d’albero schiantato; un ammasso informe, macabro, spaventoso di cose, cui il fango rosso della roccia maledetta, ha dato un colore uniforme di sangue. Su quelle «Roccie Rosse» i nostri soldati hanno mosso alla conquista, ed hanno vinto!
 
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Procedendo sul pendìo del San Michele, meglio si scorge tutto il lavoro immane d’approccio, compiuto su quel terreno d’insidie dai nostri soldati. È tutto un brulichìo d’uomini che, simili a formiche, scavano nella roccia i loro ricoveri, i loro camminamenti, le loro tane, le loro trincee. Il colpo secco dei picconi s’accompagna ai colpi rabbiosi, laceranti della fucileria: lo scoppio delle mine, fatte per aprirsi un vano sul terreno pietroso, s’accompagna allo scoppio delle bombe che cadono nelle trincee, seminandovi la morte. Si lavora mentre si combatte: incessantemente, di giorno come nella notte.
Quanta volontà, quanta resistenza, quanta saldezza di nervi in quei piccoli soldati, nella lotta continua contro il nemico, contro le roccie, contro il fango e la pioggia!
E così tante città fantastiche sono sorte sui costoni del Carso: a San Michele, a San Martino, a Sei Busi. Le loro viuzze piccole, a zig-zag, racchiuse nei muretti di pietra, fiancheggiate da casette basse come tane, coperte di terra e di sacchi, dove si entra curvandosi, e dove vivono, mangiano e dormono i nostri soldati, quando il turno di riposo li allontana dalla trincea: viuzze in cui bisogna strisciare curvi e rapidi, mentre il sibilo delle pallottole vi fischia sulla testa, lacerandovi le orecchie e agghiacciandovi l’animo. Si parla sommessamente: il nemico è a pochi passi, mentre nelle trincee le vedette vigilano: tutt’intorno, in un’angustia di spazio che vi soffoca, vi opprime, l’odore acuto, penetrante dei disinfettanti: dai sacchetti che vi proteggono, la terra rossa, bagnata dalla molta pioggia, si scioglie in rivoletti di sangue! Non un sorriso è sui volti un po’disfatti di quei soldati: come un vago senso di nostalgia si rivela nel loro sguardo, mentre si fissa laggiù, in basso, oltre la vallata magnifica che degrada luminosa verso Gradisca; ma non troverete per altro, in quegli uomini, che la guerra ha trasformato, in una vita da bruti, un solo gesto, una sola parola che vi riveli abbattimento o sfiducia. Essi sono meravigliosi! Forti nell’assalto furioso, come nell’attesa vigile, sfibrante della trincea.
In queste condizioni difficili, a prezzo di uno sforzo magnifico che ha dell’eroico, perché cosciente e continuo, quei soldati tengono le posizioni, aggrappandosi disperatamente alla rocciosa parete dell’altipiano.
Nell’abbracciare con lo sguardo la linea tortuosa delle nostre trincee e dei nostri camminamenti, sembra che questa da un momento all’altro debba spezzarsi, cedere, rotolare sotto le raffiche di fuoco che piovono dall’alto. Quel piccolo fosso scavato nella dura pietra, quei muretti di sassi e di sacchi, quelle piccole buche coperte di tavole e di terra, vi appaiono ben fragile cosa, che solo un fenomeno miracoloso di equilibrio, possa mantenere in piedi. Ma se, passato del tempo, tornate a vederli, quel fossato tortuoso, quei muretti di sacchi, troverete che hanno arditamente camminato sui fianchi della montagna: è una rete di tentacoli, che muove nelle sue fantastiche spirali, che si disegna col suo solco nero sulla parete rossa del massiccio, destinata ad avvolgere a mano a mano le più alte linee del nemico, a stringerle, soffocarle, stritolarle in una morsa tenace di ferro e di fuoco. E così, lentamente, compiendo un lavoro da titani, avanziamo sotterra come le talpe, verso le sue posizioni formidabili: quando queste saranno così dappresso investite, da quel fosso balzerà felino l’attacco che dovrà condurci di sorpresa alla conquista, prima che i torrenti di fuoco delle mitragliatrici abbiano spezzato lo slancio irrompente dei nostri.
E questo lavoro paziente d’approccio, si svolge continuo e difficile, lungo tutti i margini dell’altipiano sul quale noi abbiamo saldamente posto piede. L’avanzata lentissima, quasi insensibile, è il risultato di uno sforzo tenace che ha del sovrumano, là, dove il solo mantenersi nelle posizioni, sanguinosamente conquistate, costituirebbe elemento di successo: il solo mezzo sicuro, col quale possiamo sperare di abbattere la formidabile muraglia di difese che ci contrappone il nemico, senza sacrificare inutilmente tanto maggior sangue di nostri fratelli. Nella lotta attuale, più del coraggio, vale calma e saldezza di nervi.
Questo hanno imparato i nostri soldati della trincea, questo debbono comprendere tutti nel Paese.