L’Illustrazione Italiana, 27 febbraio 1916
L’oltraggio dei barbari a Ravenna
Scrivo con un senso di sollievo. Il mio bel Sant’Apollinare è integralmente salvo, o quasi. Può una inconscia bomba avere solcato in questo meraviglioso anticipo di primavera il cielo aprilino della mia città: ma il criminoso tentativo è riuscito vano. E con me hanno avuto un sospiro di liberazione innumeri ravegnani. Ci furono le vittime umane, è vero. Ma il compianto per esse è troppo profondo perché un commento qualsiasi sia adeguato. L’unico modo di degnamente commemorarle è di vendicarle. E le vendicheremo. Ma non di questo strazio oggi vogliamo parlare. Vogliamo solo raccogliere e fermare in un breve commento l’essenza viva dello spirito ravennate quale si è affermato in quest’ora storica, solenne. Il popolo ravennate ha avuto uno scatto di intima ribellione per l’oltraggio fatto ai suoi monumenti. Il popolo ravennate se non ha per le glorie antiche della sua città la venerazione cosciente che indarno si cercherebbe di trovare, pure da esse ricava una profonda impressione, per esse si esalta di legittimo orgoglio. I lettori ricorderanno quei Monologhi che Gigi Rasi scrisse con grazia assai fine e con arguzia insuperata. In uno nell’ “Arte di dire un monologo” introduce a parlare gli abitanti di varie metropoli italiane ognuno dei quali magnifica la bellezza della propria città. Orbene: fra il tipo fiorentino, napoletano, veneziano, ecc., non manca un buon ravennate il quale con parole vibrate e con aggettivi potenti e staremmo per dire diffamatori nella loro intensa ed entusiastica esaltazione afferma energicamente la supremazia dei suoi musaici e delle sue basiliche. La scena è non solo esilarantissima; ma dal punto di vista psicologico, profondamente vera. Il nostro popolo vive e sente di vivere colle sue grandi memorie e coi suoi grandi personaggi di cui minimamente sa valutare l’importanza storica e morale, ma la sua gloria remota egli comprende per una specie di intuito naturale e tradizionale e rispetta quasi direi per un residuo lontano di atavistica soggezione.
Galla figlia e sorella di imperatori; Teodorico dormente per quelle umili fantasie un sonno secolare sotto il grave monolito: Giustiniano innalzatore di chiese preziose e restauratore dell’idea imperiale e delle leggi di Roma; Teodora, la mima divenuta regina, parlano un linguaggio incomprensibile alle menti rozze dei nostri popolani mentre arcano un fascino si diffonde dalle volte opulenti e onuste di ori delle antiche basiliche; da quelle volte cui un tempo salì l’osanna tonante delle vittorie trionfali e la plorazione sommessa di tragiche sconfitte; da quelle volte abbaglianti di smeraldi e di rubini cui si innalzarono mani che si torsero disperate e minacciose nell’ambascia, che si unirono umili e supplici nella preghiera: cui si volsero fronti cruciate dall’odio che rode, o consolate dall’amore che illumina…
La Basilica Teodoriciana fatta segno all’iniquo attentato dei barbari, parla sempre al popolo un linguaggio misterioso di
tempi lontani…
O mio bel Sant’Apollinare, temevamo di veder sgretolati i tuoi musaici plurilucenti: temevamo di vedere stroncato e mozzo il tuo dieci volte secolare campanile rigato dagli stridi giocondi delle rondini nei luminosi vespri di maggio: temevamo si spegnesse la voce che da te si espande a cantare un poema profondo di storia e di arte.
Di una storia che ci ricorda il tuo fondatore Teodorico, e la sua reggia in Ravenna; e il geniale e riuscito tentativo di unificare in pacifici rapporti e vincitori e vinti, innestando negli ultimi tronchi della civiltà latina il giovane ramo delle verdi energie barbariche; cosicché delle terribili invasioni non fu interrotta la continuità storica, ma armonicamente proseguì a svolgersi nella integrazione dei vecchi elementi romani coi nuovi sopravvenuti in una unica e tranquilla forma finale di vita.
Di un’arte che ci rammenta attraverso le strofe di Gabriele d’Annunzio la millenaria Ravenna,
glauca notte rutilante d’oro;
e le vergini di Sant’Apollinare nell’appassionato racconto di Francesca:
Le vergini di Sant’Apollinare non ardono così nel loro cielo d’oro...
e l’altro vaticinio:
O Prisca un altro eroe tenderà l’arco dal tuo deserto verso l’infinito.
Quale eroe? forse Guidarello?
Chiuso nell’armi attende i dì novelli
il tuo guerriero: attende l’albe certe
quando una voce per le vie deserte
chiamerà le virtù fuor dagli avelli.
o un altro eroe simile a Teodorico nella fiammeggiante leggenda della Rabeneschlacht, un altro eroe espresso già forse fin d’ora dal grembo misterioso della città imperiale?
Noi accomandiamo l’augurio ai tempi nuovi, e incontro ai novissimi barbari invochiamo la sacra vendetta d’Italia qui, da questo estremo lembo della nostra terra garibaldina.