Il Sole 24 Ore, 18 agosto 2016
Le élites europee o la danza dei sonnambuli sull’orlo del tetto
La crisi economica ha eroso la fiducia nella capacità delle élites europee di governo di promuovere crescita e occupazione, mentre un quadro internazionale mutato rispetto a inizio secolo rimette la sicurezza al centro delle ansie collettive. Le élites continentali sembrano dunque incapaci di produrre i beni pubblici primari dello sviluppo e della protezione dei cittadini. Ma é in buona misura sulla capacità di produrre questi beni che si fonda la legittimazione del cosiddetto ceto dirigente.
Vale la pena di ricordare che alla fine della seconda guerra mondiale, in una situazione ben più drammatica dell’attuale, il prestigio delle élites europee aveva raggiunto il minimo storico. L’incompetente gestione della crisi degli anni Trenta aveva mostrato che il re era nudo, privo di risposte adeguate. Milioni di posti di lavoro erano evaporati in pochi anni. La guerra, la seconda nel tempo di una generazione, aveva lasciato privi di protezione, di pane, di alloggio decine di milioni di civili inermi. La fiducia nella funzione primordiale dello stato, garantire la sicurezza dei cittadini, era evaporata. Gli Stati stessi e chi li guidava avevano ideato e attuato distruzioni a tappeto, immotivate da legittime ragioni di difesa.
I governi che, nell’immediato dopoguerra, raccolsero un’eredità di macerie dovevano anzitutto ottenere quella legittimazione che i ceti dirigenti precedenti avevano perduto. Si trattava di mostrarsi in grado di assicurare sicurezza e crescita economica. La scelta di cedere una parte, inizialmente minima, di sovranità fu motivata dalla convinzione di poter ottenere in cambio sviluppo e pace, legittimando così i governi democratici. I primi passi di cooperazione europea – l’Oece e l’Unione Europea dei Pagamenti – furono mossi per assicurare una rapida ricostruzione e con essa pane e occupazione. Nel 1951, la denazionalizzazione della gestione di carbone e acciaio, prima piccola ma significativa cessione di sovranità, ebbe l’obiettivo dichiarato di dare all’Europa un nuovo senso di sicurezza, rimuovendo alla radice le cause di guerre combattute per molti secoli al confine tra Francia e Germania.
Continua pagina 14 Gianni Toniolo Continua da pagina 1 A settant’anni di distanza, gli stati europei hanno compiuto enormi passi sulla via dell’integrazione attraverso la cessione di sovranità imboccata nel dopoguerra. Pace e prosperità sono state a lungo garantite e con esse un discreto consenso alle istituzioni europee e ai ceti dirigenti nazionali. Oggi, però, una crisi economica assai meno severa, tranne che in Italia, di quella degli anni Trenta sta di nuovo erodendo la fiducia nella capacità di governi e imprenditori europei di garantire crescita e occupazione. Un quadro internazionale mutato rispetto a inizio secolo rimette la sicurezza al centro delle ansie collettive.
Come settant’anni fa, le élites europee soffrono una crisi di legittimazione. È urgente che la recuperino, anche per non lasciare spazio, come negli anni Trenta, al populismo nazionalista che moltiplicherebbe i problemi invece di risolverli. Come possono farlo? Nuove cessioni di sovranità, per quanto desiderabili, hanno al momento probabilità quasi nulla di ottenere il necessario consenso da tutti i paesi membri. Non per questo é preclusa la via europea al recupero di consensi. Al contrario: la storia degli ultimi mesi e anni mostra che, ancora oggi, seppure per ragioni diverse da quelle dell’immediato dopoguerra, sviluppo e sicurezza hanno dimensioni tali da rendere indispensabile la cooperazione europea. Che può essere di molto accresciuta senza modifiche ai trattati esistenti.
Tra i frutti avvelenati della crisi e degli inordinati flussi migratori c’é la crescita del sospetto, della sfiducia tra i paesi membri dell’Unione. Sfiducia che investe sia i governi, sia le istituzioni rappresentative, sia le pubbliche opinioni. È stata alimentata tanto dal miope calcolo propagandistico dell’indicare altri paesi e istituzioni dell’Unione come responsabili dei fallimenti delle politiche nazionali quanto dal mancato rispetto di regole europee liberamente accettate. Per salvarsi, e in molti casi salvare i propri stessi paesi, le élites europee devono recuperare il consenso perduto. Per farlo devono poter vantare, rapidamente, risultati di crescita e sicurezza ottenuti da una rafforzata cooperazione europea. Per ottenerli serve anzitutto un impegno forte e soprattutto costante nel tempo a ridurre lo iato di fiducia che si é creato tra i membri dell’Unione, e del quale tutti i governi, tutti i ceti dirigenti, portano parte di responsabilità.
È indispensabile abbandonare quello che gli anglosassoni chiamano “blame game”, gioco delle accuse reciproche ed essere più rispettosi dei doveri di “buoni cittadini” dell’Unione. Nel breve andare ciò potrebbe non aumentare i consensi domestici ma faciliterebbe la cooperazione che, a propria volta, darebbe frutti capaci di accrescere consensi e ridare legittimazione. Non si deve peraltro dimenticare che l’integrazione europea gode ancora di larghi consensi nella pubblica opinione di tutti i paesi, compreso il Regno Unito. Si tratta di cittadini – soprattutto, ma non solo, giovani – che aspettano solo una maggiore dose di convinzione nel perseguire politiche cooperative sovra nazionali per rafforzare la propria scommessa sul futuro dell’Europa. L’alternativa – ignorare la delegittimazione strisciante sperando che le cose si aggiustino da sole – é quella scelta dalle élites europee nel 1914: la danza dei sonnambuli sull’orlo del tetto.