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 2016  agosto 18 Giovedì calendario

Perché le pietre ci attirano così tanto?

D’estate le pietre attirano il nostro sguardo. Che si tratti di ciottoli di torrente o di fiume, oppure di sassi in una spiaggia del mare, siamo attratti da loro. Ci fermiamo a osservarne la forma, la dimensione, il colore. A volte ci capita di tornare da un viaggio con un sasso raccolto in qualche remota parte nel mondo: un ricordo d’appoggiare sul tavolino della sala o invece sullo scrittoio, come un portafortuna. I sassi possiedono uno strano fascino difficile da spiegare, ma assolutamente incontrovertibile. Da molti anni Luigi Lineri raccoglie pietre levigate dall’acqua nell’alveo dell’Adige. Le colleziona a seconda delle forme che v’intravede: volti, animali, falli, sessi femminili, antichi idoli paleolitici, sculture. Li allinea in espositori seguendo le forme e le evocazioni che scaturiscono dal suo sguardo.
Le pietre non hanno un perché, non hanno neppure destinazione né scopo. Sono e basta. Siamo noi che leggiamo nelle loro forme significati particolari: le “interpretiamo”. La materia della pietra è come un teatro, in cui le forze della natura – acqua, vento, rotolamento, strofinii – hanno iscritto immagini che il nostro occhio e la nostra mente paiono in grado di leggere. Non è solo così. Anche le pietre hanno un loro perché.
Uno scrittore francese, Roger Caillois, ha dedicato a questi oggetti inerti due bellissimi e inconsueti libri, Pietre e La scrittura delle pietre. Caillois, che è stato lo scopritore europeo di Borges, oltre che un fantastico scrittore di cose e forme, ha studiato le pietre in relazione alle loro “azioni”. Ci sono pietre, scrive, che figliano: si trovano nell’Isola di Metà; pietre che ammansiscono i cani che abbaiano, come quelle che si rinvengono in certe rive del Nilo; altre pietre, poi, partoriscono, oppure urlano, come accade in Irlanda; e ancora esistono pietre che sanguinano sotto i colpi di zappa, come accade in certi luoghi del Vietnam. Caillois ha creato una vera e propria mitologia delle pietre, ma anche un’estetica e un’etica, e persino una metafisica dei sassi e dei minerali. Per lui queste forme levigate dall’acqua e dal vento, o estratte dalle profondità della terra, appartengono a un regno dove la vita e la morte sono sinonimi, come ha scritto il poeta Edmond Jabès parlando della sua passione.
I latini possedevano due parole per indicare la pietra: Lithos e Lapis; la prima indica la natura minerale della pietra, la seconda invece l’elemento roccioso, la natura di selce e sasso. I nostri antenati dedicavano alle pietre un vero e proprio culto. Perché?
Sia i sassi di piccole dimensioni – come quelli raccolte da Lineri – sia le pietre enormi – le grandi rocce delle montagne – comunicano l’immagine di un’esistenza immota; indicano con il loro “essere” la resistenza al tempo: stabilità, continuità, inattaccabilità.
Perché le pietre ci attirano così tanto, anche al di là delle forme che vi intravediamo? Italo Calvino in un testo scritto negli anni Ottanta per la mostra del pittore Alberto Magnelli, che dipingeva pietre, ha assunto il punto di vista della pietra. In un monologo in prima persona ci ricorda che le pietre, pur essendo segnate dal tempo, non lo conoscono davvero. Vivono in una dimensione di assoluta sospensione; e tuttavia nella loro superficie scavata, scheggiata e rotta recano addosso una storia: «tracce di eventi irrevocabili che non si situano in un quando e in un dove».
Ogni volta che raccogliamo una pietra, sembra dirci il settantenne Luigi Lineri, ritorniamo un poco bambini. Un modo che abbiamo per uscire dal tempo, avendo in mano un oggetto che è frutto del lento scorrere del tempo.