Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1916  febbraio 20 Domenica calendario

Nostalgie irredente: Gorizia

L’articolo che qui offriamo ai lettori è di Bruno Astori, il giovane valoroso pubblicista triestino, il quale, dopo aver lavorato al Piccolo di Trieste fino al giorno in cui la polizia austriaca mandò la teppa a incendiarne gli uffici, scrisse poi, dal nostro fronte, le belle e vive corrispondenze, ora riunite in un Quaderno della Guerra della Casa Treves, sotto il titolo La battaglia di Gorizia. Pure di Gorizia, ma in epoca anteriore, parlano queste impressioni che son come un commosso sospirante preludio a quelle sonore pagine di guerra.  
I giardini di Val di Rose respirarono dalle corolle sbocciate: l’aprile. S’erano tutte accese, le stelle, su Monte Santo, sull’ombra claustrale di Castagnavizza: occhieggiavano dalle antiche rovine di San Valentino: si specchiavano nell’Isonzo cerulo.
Sotto alla vôlta dei vecchi platani, venne il brusìo d’una folla: sommessa, lenta, malinconica, la strofe della canzone popolare
portata dal ritmo dei passi – si avvicinava con una confusa voce di coro. Canzone che agghiacciava il cuore.
… Iddio, fa fermar la guere,
che’l mio ben torni al païs…
Passò accanto al cimitero vecchio – ove i padri dormivano: tacque la canzone: la folla sostò un attimo: nell’ombra udii singhiozzare.
Una voce giovine disse:
– Dov’è che moriremo noi?
La voce fu coperta dallo sciabordìo della folla che si rimuoveva, che si sospingeva: le donne camminarono silenziose.
Un fischio lacerò il silenzio. Era tardi? Ma la ferrovia era già vicina. L’ora degli addii: il dolore chiuso traboccò ad un tratto in esplosioni di pianto: donne maledirono. Perché chiedeva la folla – quest’ultimo sagrificio? Non era già stata dissanguata abbastanza, Gorizia, da quasi un anno? Non era stato travolto e annientato dalla valanga cosacca, sui campi di Galizia, strumento cieco dell’oppressore, il più bel sangue friulano? Ancora carne da cannone per il III Corpo distrutto?
Era, adesso, la volta dei giovinetti. L’Austria era implacabile. L’ultima leva partiva…
Pure, c’era in aria qualche cosa. Da alcuni giorni, un insolito movimento di soldati si avvertiva in città. Arrivavano ufficiali di stato maggiore, salivano le alture del circondario, osservavano, misuravano, impartivano ordini.
La ferrovia di Lubiana rovesciava ogni giorno vagoni interi di filo spinato, di carriole. di zappe. Oltre il ponte delle catene, oltre il ponte della barca, oltre il ponte della ferrovia, squadre di operai passavano e ripassavano l’Isonzo, si avviavano ogni mattina a Piuma, a San Mauro, a Piedimonte. Verso Oslavia, i cittadini non potevano più fare la loro passeggiata domenicale: sulla soglia del bosco di Sabotino, le sentinelle rimandavano. Streng verboten. Come nelle zone fortificate di Trento o di Pola.
Pure, passando in ferrovia ai piedi del Collio, da Lucinico a Capriva, qualche cosa si riusciva a vedere. Materiale e materiale; uomini e uomini: un lavoro assiduo, rapido, febbrile. La bella pettinatura dei vigneti di Monte Calvario cadeva brutalmente sconvolta dalla bipenne ilei contadino croato.
Più in là, sul piano, nell’argine che bordeggia l’Isonzo, si vedeva rosseggiare la terra rimossa da poco, nella quale si aprivano, a piccoli intervalli, accoppiati a due a due, i tagli oscuri delle feritoie. Era la trincea della prima difesa.
Perché quelle misure? Era la guerra anche con l’Italia? «Ma che! L’Italia ha paura!» L’Austria cercava d’ingannare ancora, ma non s’illudeva più.
Il cuore di Gorizia italiana. negli ultimi giorni, trepidava chiuso nella sua angoscia fedele…
Quando? Come tardava l’ora! Come si moltiplicava, ogni giorno più, l’angoscia! Sull’altipiano di Tarnova, erano salite già da tempo le prime batterie: dalla parte di Piedimonte e di Lucinico. le trincee erano ultimate. Che cosa si aspettava?...
Era venuto maggio. Come si fece bella, Gorizia, nell’attesa! Tutti i suoi roseti s’infiorarono del colore di fiamma. La città parve tutta un giardino. Il giglio giallo e il giglio azzurro – i colori dell’antica patria – sbocciarono selvaggi tra le crepe del Castello secentesco. Come sembrava decrepito, nella giovinezza erompente dell’attesa stagione, quel vecchio maniero della dominazione straniera!
Nelle sue cripte secolari, un mattino, i morti Conti di Gorizia dovettero fremere. Era di domenica: un gruppo di contadini slavi scendeva dai colli di San Floriano alla città. Improvvisamente, da essi, senza che si potesse spiegarsi come, si levò un grido che sbalordì: Zivio Italia!
«Viva l’Italia!» Quelli ch’erano stati fino a ieri i nemici implacabili di ciò che avesse nome di italiano, gli irreducibili avversari della città, lo strumento cieco nelle mani dello straniero contro di essa. E adesso, nell’ora della riscossa, i nemici di ieri si affratellavano a noi con una parola d’amore! Il destino dei popoli urgeva con passi di bronzo.
Giorni di terrore, seguirono. Le condizioni si fecero più aspre. Da ciò si comprese che quell’ora non era più lontana.
Ed era un’altra sera di domenica. Improvvisamente, dalla ferrovia, con alcuni treni speciali, si rovesciarono in città gruppi di funzionari che avevano abbandonati precipitosamente i loro uffici presso la frontiera. Le famiglie che li accompagnavano, erano in preda ad un terrore che non riescivano a dominare.
E la voce, portata dagli arrivati, si diffuse come un lampo nella rossa sera, mentre dalle strade del Vipacco rincasavano cantando, dalla scampagnata domenicale, i buoni cittadini borghesi.
– La guerra! È la guerra!
Uscirono i gendarmi: la gente fu cacciata nelle case. Ma nessuno dormì, quella notte. Le popolane si appiattarono, spaventate da un pericolo che non conoscevano.
Gli altri vegliarono, in una grande meravigliosa illusione. I minuti gocciavano con la lentezza di secoli. Tutte le orecchie erano tese ai rumori di fuori. Era una notte rumorosa: si udirono continuamente passare e ripassare soldati, carri, affusti di cannone: grida, bestemmie. Ma la guerra non si udiva; ma il brontolìo lontano del cannone italiano non s’udiva. Che cosa succedeva? Avanzavano gli austriaci? L’Italia si lasciava invadere?
Albeggiava. Niente ancora s’udiva. D’improvviso (potevano essere le sei), una grande detonazione vicina, squarciò l’aria: uno dei ponti sull’Isonzo che saltava. E allora i goriziani compresero: gli austriaci sgomberavano: gli austriaci cercavano di interrompere la strada all’avanzata italiana ch’erano incapaci di fermare.
Pochi giorni dopo, si udivano dalla città le fucilate. I proietti passavano sopra le case senza toccarle. Di notte, sopra le alture del Calvario e di Piuma, altre stelle si accesero accanto alle vecchie stelle del cielo: gli scoppi delle granate.
Il primo goriziano, volontario nell’esercito liberatore, moriva alla soglia della sua città. Nella grande ora, che – talvolta – negli ami della vigilia – avevano disperato venisse, i più vecchi rammentavano due vecchie strofe patriottiche che, nel 66, i soldati di Raffaele Cadorna, avevano cantate al ponte di Visco:
 

Savoia. Savoia,
si vinca o si muoia:
squillan le trombe
la marcia reale.
Sotto Gorizia
il sangue spargeremo
e moriremo
gridando «libertà!».

 
Il ponte di Visco. stavolta, era stato passato. E i soldati di Luigi Cadorna non si sarebbero fermati finché l’Italia non fosse stata compiuta da vero.