L’Illustrazione Italiana, 20 febbraio 1916
Le giornate dei ministri francesi a Roma
Roma, febbraio Il giorno in cui l’on. Briand coi ministri che lo accompagnavano, scese alla stazione di Roma, il cielo era nuvoloso e la pioggia aveva allagato durante tutta la notte la città. Ma sabato sera, quando la missione francese ripartì per il fronte, un sole magnifico illuminava gli edifici con la porpora del suo tramonto. Poche ore prima, lo stesso sole primaverile, scendendo a traverso i boschi di lecci a Villa Borghese, illuminando i prati di un bagliore smeraldino, facendo luccicare gli zampilli delle fontane, aveva dato l’illusione di un qualche portentoso rinnovamento. Fuori delle finestre, sull’orizzonte dell’Agro il Soratte sorgeva dalla pianura bassa come un altare portentoso. I Romani credevano che là fosse la reggia del sole e per continuare il culto del luogo sacro i monaci carolingi del IX secolo avevano edificato una basilica cristiana. Tutti presagi bellissimi che agli occhi di un latino potevano anche acquistare un significato profondo. Ma l’on. Briand e i suoi compagni di viaggio avevano da pensare a ben altre cose: essi erano venuti in Italia per riaccendere la fiamma che sotto gli sforzi combinati dei germanofili e dei pacifisti poteva far credere che stesse impallidendo. Perché i tedeschi d’Italia e di Svizzera avendo perduto ogni possibilità di esaltare la propria causa e di far credere nella propria vittoria, hanno ricorso alla guerra insidiosa, all’attacco di fianco, alla trincea morale: concediamo pure che la Germania è una nazione di barbari, purché si convenga che la colpa della guerra attuale ricada sull’Inghilterra; ammettiamo senza discussione che i metodi adoperati dai tedeschi, sono metodi da selvaggi, ma si proclami ad alta voce che la Francia è una minaccia continua per le classi conservatrici e un pericolo imminente di rivoluzione sociale. Bisogna convenire che quest’ultima insinuazione era quella che otteneva maggior credito. Un poco per il passato politico della Francia, un poco per la sua azione diplomatica durante l’ultimo trentennio, le classi conservatrici erano autorizzate a guardare con sospetto una più stretta alleanza con la Repubblica Francese. Uno degli errori dei diplomatici che si sono succeduti a Palazzo Farnese, dal giorno in cui fu firmata la Triplice Alleanza, è stato quello di basare ogni loro azione sui partiti popolari. Dal giorno in cui il Cernuschi mandò le centomila lire a Felice Cavallotti per le elezioni politiche del 1891, fino ai misteriosi viaggi di una torpediniera francese fra Napoli e la Sicilia, durante i giorni tumultuosi dei fasci, viaggi ai quali non fu estraneo il capitano di fregata Jousselin, addetto navale presso l’Ambasciata di Francia, non vi fu avvenimento di azione democratica in cui non si abbia avuto a sospettare l’influenza o per lo meno il compiacimento del governo francese. Forse si esagerò, ma questo modo di condurre gl’interessi propri era una tradizione repubblicana, che a Roma aveva origini antiche e tragici ricordi: informi l’ambasciatore Ugo Basville, ucciso a furia di popolo per i suoi intrighi troppo apertamente rivoluzionari.
Di questo errore si era convinto l’onorevole Briand, a cui – consiglieri disinteressati – avevano fatto capire come il dubbio delle classi dirigenti poteva mantenere vivi quei sospetti che non dovevano esistere in regime di alleanza. Tanto più che l’azione dei diplomatici tedeschi aveva largamente battuto questa influenza sapendosi creare una fiducia quasi cieca fra tutti coloro che credevano nella necessità di una politica schiettamente conservatrice. I pranzi del principe di Bülow hanno avuto certo una grande importanza per le relazioni italo-tedesche, ma la paura della «prochaine» ha esercitato una influenza decisiva. L’on. Briand ha capito tutto ciò, e la sua linea di condotta, qui a Roma, si può dire quasi unicamente ispirata dal proposito di accaparrarsi la fiducia dei conservatori. Guardate la nota predominante dei suoi brindisi: egli si preoccupa unicamente di far risonare le espressioni di lealismo monarchico. Non solo brinda alla salute del re e della regina – il che era protocollarmente naturale e corretto – ma estende i suoi voti ai vari membri della famiglia regnante: non nomina il governo italiano senza aggiungere l’aggettivo «reale», non perde mai una occasione di esaltare le virtù militari e civili del Re. Poi, durante il ricevimento del Campidoglio, rivolgendo il suo saluto al sindaco di Roma, fa omaggio in lui a tutta l’aristocrazia romana. «Mi è grato – egli dice a un dipresso – di salutare nel primo cittadino di Roma il rappresentante di quella illustre famiglia che ha avuto tanta parte nella grandezza della sua gloriosa città», movimento oratorio abilissimo sia per don Prospero Colonna che è così fiero – giustamente del resto – del suo nome e del suo titolo; sia per la cittadinanza tutta che nel titolo di «principe romano» considera sempre un poco dell’antico splendore.
Ma non basta. Vi è un episodio ignorato e che i giornali hanno taciuto, che accentua anche di più questa manifestazione esteriore del ministro Briand. L’episodio è assolutamente autentico, perché io stesso ero presente e ho potuto constatarlo di persona. L’ultimo giorno in cui l’on. Briand rimase a Roma, si recò a far visita, privatamente e da amico, al principe Giovanni Borghese. Don Giovanni Borghese – che ha sposato una eletta signora belga della grande famiglia dei Caraman-Chimay – è un vecchio parigino, che il Briand conosceva da lunghi anni e apprezzava tanto più sinceramente in quanto che egli è uno spirito colto e curioso di ogni manifestazione sociale. Gentiluomo di antico stampo, don Giovanni Borghese è stato per lunghi anni alla testa del movimento cattolico e ha presieduto quella Unione romana che è l’organismo politico più antico e più fedele di cui abbia mai disposto il Vaticano nelle elezioni amministrative prima e politiche dopo di Roma. La visita ebbe luogo nello storico palazzo, sabato scorso, pochi momenti prima della partenza e subito dopo la colazione di Villa Borghese: alle 6 pomeridiane. Essa diede luogo a un incidente comico, perché il portiere dei Borghese, vedendo quell’illustre personaggio che chiedeva del principe, credette che volesse far visita al padrone di casa e lo fece salire al primo piano dove con suo grande stupore si trovò d’innanzi a don Scipione, reduce, per i suoi quindici giorni di licenza invernale, dal fronte cadorino, dove ha combattuto, come capitano d’artiglieria, dal principio della guerra.
L’equivoco fu presto spiegato e don Scipione stesso si affrettò a condurre l’ospite involontario da suo zio, don Giovanni, che abita il pianterreno. Non so se l’on. Briand abbia avuto il tempo di vedere, nell’appartamento di don Scipione, le molte e belle cose che vi si conservano. Tra le altre avrebbe potuto notare il grande ritratto a olio che il Mikado aveva mandato, da sovrano a sovrano, al papa Paolo V che lo aveva onorato di una speciale ambasceria. Comunque si sia la visita ha avuto il suo significato, per la persona a cui era diretta e per la posizione che questa ha nel mondo romano. Si trattava di un amico personale, è vero: ma il presidente del Consiglio francese ha tenuto a manifestare questa amicizia trovando uno scampolo di tempo nei tre giorni così densi di lavoro, che egli ha passato a Roma. Come del resto aveva tenuto a incontrarsi col cardinale Mercier il quale per caso – il caso alle volte giuoca dei tiri inaspettati – si trovava nei giardini di Villa Medici proprio nelle ore scelte dall’on. Briand per far visita all’illustre direttore dell’Accademia. E il caso era stato così intelligente che appena il prelato belga e lo statista francese si furono incontrati, il signor Besnard e i suoi invitati si ritirarono discretamente e lasciarono soli in colloquio i due personaggi!
Del resto, nessun uomo meglio del Briand avrebbe potuto e saputo compire una simile missione. L’ultima volta che io lo vidi a Parigi, nei giorni che precedettero la nostra dichiarazione di guerra, gli espressi il mio rammarico perché le sue aspirazioni politiche lo impedissero di accettare una missione a Roma dove sarebbe stato l’ambasciatore ideale; ed egli sospirando mi rispose «Credete veramente che non ci pensi e che non senta anch’io tutta la nostalgia di questa rinuncia?». Gli avvenimenti hanno dato ragione a me e hanno aumentato forse il suo rimpianto: a Roma è venuto come ambasciatore, ma un ambasciatore di sé stesso o per lo meno del governo che egli rappresentava.
E subito si è conquistato tutte le simpatie e ha dimostrato che non è ancora morta del tutto quella vecchia galanteria francese che apriva le battaglie sanguinose al suono dei violini e che ai soldati moribondi sui campi della gloria offriva, come ricompensa suprema, il sorriso di una bella donna. L’on. Briand, in fatti, recandosi a visitare le due Regine ha portato loro due grandi mazzi di fiori: orchidee per la regina Elena, rose bianche per la regina Margherita. Forse, a rigore di protocollo, non è uso fare così. Ma non importa: è bene che lo abbia fatto e che un ministro francese abbia saputo far rivivere un gesto così squisitamente cavalleresco schiettamente latino.
Ma già si direbbe quasi che la visita del presidente Briand abbia rotto ogni tradizione protocollare. Perfino un ministro italiano ha sentito il bisogno di ricevere il suo ospite con un senso di bellezza, e l’arte – che nei tempi passati era così ignominiosamente bandita da ogni manifestazione ufficiale – questa volta è entrata da trionfatrice nel giuoco della politica. Dovendo offrire un banchetto al Presidente del Consiglio francese, il Presidente del Consiglio italiano ha pensato bene che Roma offriva qualcosa di meglio di una sala da pranzo in un grande albergo cosmopolita o di una stanza frettolosamente addobbata in un Ministero, e ha scelto Villa Borghese. L’idea prima è stata di Antonio Salandra che aveva pensato a Villa Corsini: ma è venuto Corrado Ricci e ha suggerito il bel Casino del Vasanzio che il cardinale Scipione aveva fatto edificare nella sua villa Pinciana. L’innovazione è stata geniale e ha ricondotto la Galleria Borghese alle sue vere origini.
Nella grande sala dove ha avuto luogo la colazione fra gli stucchi decorativi che adornano il soffitto e li architravi di onice e di diaspro che inquadrano le porte, sono appese alcune tele di grande bellezza: c’è la Sibilla del Domenichino e il Santo Stefano di Francesco Francia, c’è l’Allegoria del Veronese e le Quattro stagioni dell’Albani. Sopra una consolle di marmi vari, il busto che il gran Bernini scolpì per Paolo V, sorride nella sua barbetta arguta, mentre da una porta socchiusa, la Venere del Tiziano porge a Medea la cassetta degli unguenti, e da una parete vicina la Danae del Correggio offre il bel seno ignudo all’aurea pioggia corruttrice del suo amante divino. E accanto alle bellezze dell’arte, quelle più vive della natura. Dalle finestre i grandi lecci decorativi ombreggiano le fontane marmoree; poi, oltre la linea dell’orizzonte i pini della Pariola e oltre questi la linea solenne dell’Agro limitata all’orizzonte dalla sagoma religiosa del Soratte.
I ministri francesi, che sono abituati alle eleganze fastose di Versailles, avranno ammirato quest’altre eleganze non meno fastose, e mai forse – nel loro breve soggiorno romano – l’anima della città si sarà manifestata più nitidamente ai loro occhi. Un’anima di bellezza e di forza, un’anima che è agreste e cittadina al tempo stesso. L’on. Briand era al caso di apprezzarla al suo giusto valore, e il giorno prima, in pieno ricevimento al Campidoglio, lo avevano trovato in contemplazione davanti ai grandi affreschi dove il cavalier d’Arpino ha rappresentato i fatti della Storia di Roma.
– Come sono belli! – mormorava fra sé. E forse la stessa distrazione estetica aveva provato la sera innanzi, quando rientrando dal balcone di Palazzo Farnese, nella storica galleria si era trovato dinnanzi all’Olimpo immaginoso dei Caracci. Di fuori la moltitudine si affollava acclamando e le luci delle torce a vento mandavano i loro bagliori oscillanti sulle fontane araldiche della piazza: dentro, nella luce moderata dal sapiente buon gusto del padrone di casa, sopra i belli arazzi che il Boucher aveva disegnato per il Re di Francia, tutte le scene della mitologia pagana si svolgevano con l’impeto della loro anima veemente. E forse era un po’ della stessa passione che agitava l’anima dei diecimila romani acclamanti il ministro di Francia e che aveva fissato nelle volte del palazzo cardinalizio gli eroi del mito latino.
Di questa bellezza italiana, i ministri francesi si sono largamente nutriti durante il loro soggiorno romano. Leone Bourgeois, il giorno del ricevimento in Campidoglio, si assorbì talmente nella contemplazione che si smarrì separandosi dagl’invitati e fu ritrovato in contemplazione di una statuetta etrusca, in una stanza lontana. In quanto al signor Thomas, sembra che egli sia stato il meno esteta di tutti. Ma egli doveva rivedere i camarades italiani e augurar loro di rivolgersi, finalmente, verso la Francia. E poi egli è sottosegretario di stato al Ministero della guerra e si occupa di munizioni. E poi – dans le civil – è professore di filosofia! Sono tutte cose che escludono la contemplazione della bellezza pura.
La quale bellezza pura potrebbe avere i suoi pericoli, se un po’di filosofia non ne temperasse le lusinghe. Per questo forse la presenza dell’on.Thomas era un ammonimento, come era un ammonimento la riproduzione della Dafne del Bernini che adornava la lista delle vivande nella colazione di Villa Borghese. Perché quella riproduzione poteva essere interpretata in due maniere. Lo spirito sereno di Antonio Salandra aveva indicato un motto che si trova nelle epistole di San Paolo: Non coronabitur nisi ille qui legittime certavit. Ma proprio nella base della Dafne berniniana, il cardinale Barberini – che fu poi Urbano VIII – aveva dettato questo distico pensoso:
Quisquis amans sequitur fugitivae gaudia formae manu frondes implet, bacchas, seu carpit amaras.
E vi è più saggezza in questo distico papale, che non in tutta la filosofia dell’on.Thomas, dei suoi colleghi di cattedra e dei suoi camarades di tribuna. Non so chi abbia scelto, ad illustrare la lista delle vivande, la bella statua del gran Gian Lorenzo, ma mi par di veder sorridere di qui, sotto l’ampia falda del suo cappellaccio romagnolo, il volto arguto del mio amico Corrado Ricci…
Diego Angeli