Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 1916  febbraio 20 Domenica calendario

J’accuse! (il libro di un tedesco)

È un libro onesto? è un libro sincero? Difficile troppo è il giudizio. Se in realtà è un tedesco che scrive il libro, può essere considerata una disonestà verso la sua patria, oppure uno di quei gridi di dolore, una di quelle ribellioni che solo hanno le anime purissime. Dice delle cose già dette, che sappiamo, che abbiamo ormai constatate, ma che dette da un tedesco possono ancora destare un fremito di meraviglia.
Sono appena in due, dunque, in Germania, che osano dire la verità, Liebknecht, – con quella durezza ostinata della razza, ormai sicuro di non esser massacrato, ripete il suo sermone, l’eco del quale si spegne tra le pareti del Reichstag, mentre i compagni suoi spogliati completamente del sottile paludamento culturale socialista internazionale scannano e bruciano i prigionieri, fratelli di fede, quasi come non avrebbero fatto i loro antenati i quali non avevano ancora l’obbligo di sentirsi civilizzati, – e l’ignoto scrittore che «accusa» e che molto osa, poiché il suo grido di richiamo deve essere considerato come un delitto di antipatriottismo. Non dice delle cose nuove, ma dice delle cose giuste, e la verità è sempre nuova, è sempre necessaria.
Le ragioni che spinsero alla guerra la Germania le sappiamo, le menzogne che i suoi uomini di Stato dicono al popolo sono note: pure, dette da un tedesco, danno un nuovo senso di nausea per questo popolo refrattario ad ogni civiltà, così legato alla teatralità di un impero, così affascinato dalla farsa tragica di un commediante, e che in una crisi di follìa collettiva, dopo aver creduto all’aggressione, credette possibile la conquista del mondo, credette vera la propria superiorità, e come tutti i miseri d’intelletto fu persuaso dell’imbecillità altrui.
«Ubriachi che si battono a colpi di bastone in un negozio di porcellane» dice l’ignoto scrittore, e le porcellane del
mondo saranno presto in cocci… nulla consolerà il popolo, non le entrate solenni dalla porta di Brandeburgo, con corone d’alloro e gran squillar di fanfare… La pace verrà, perché deve venire… guai ai dirigenti che non vogliono ascoltare la voce contenuta del popolo che si vuol soffocare con la forza! Qualche cosa ribolle, rumoreggia e stride sotto le acque tranquille del Burgfrieden. Guai a quelli che non vogliono sentire i rumori sotterranei e continuano a confidar le loro piccole barche alle acque «traditrici»!...
E dice ancora:
… Il vostro Burgfrieden (pace del castello), deve durare fino a quando si sarà fatto un Kirchhofsfrieden (pace di cimitero)…Quello che, detto più tardi, sarà una parola vana, è ora un atto di salvazione… Ma se l’ascoltate, se non volete
ascoltarla neppur ora, la vostra casa crollerà e si sotterrerà sotto le sue rovine. Imperocché io vi dico: Se la Germania continua a vincere come fin qui, essa morrà delle sue vittorie. Ed aggiunge che questa verità tutto il mondo la conosce.
E grida: «Pace, pace, pace»; ma è appunto perché la conosce che il mondo grida: «guerra, guerra, guerra»; è appunto perché la conosce che il mondo vuol guarirsi da questa malattia teutonica, vuol guarirsi con una radicale operazione.
Io comprendo come un uomo tedesco, per caso meno cieco della massa, che si sente lontano dal barbaro furore di conquista che, rinato dai secoli, ha di nuovo invaso la sua terra, che ha letto e udito il giudizio dei popoli, che ha creduto alla ribellione delle coscienze latine, debba sentirsi tormentato dal pensiero dell’avvenire e debba tentare un richiamo alla ragione per questo suo popolo ingannato. Le sue pagine sono pietose, se consideriamo il dolore che egli deve aver provato nel rivelare ciò che forse non crede abbastanza noto, nel mettere a nudo tutto quello che il mondo anche troppo conosce dello sleale tradimento che la torbida politica tedesca ha ideato e tradotto in azione.
Molte dure cose egli dice, le sue parole, le sue considerazioni sono forse un ammonimento più efficace di quelle che Liebknecht ha dette al Parlamento, ma vi sono altre dure verità che né l’uno né l’altro oserebbero dire, e ve ne è una sopra tutte che forse l’anima dello scrittore ha avuta ripugnanza a dire, ed è che ogni popolo ha il governo che vuole, ed è che per quanto abile il governo dell’imperatore possa essere stato nel far credere all’aggressione, alla necessità di difesa, bisogna che il popolo abbia avuto una comprensività eccessivamente corta per non ricordare e riordinare il lungo lavoro del militarismo, la preparazione ostinata e spettacolosa contro la quale anche i seguaci di Liebknecht dicevano di lottare coi compagni del mondo. Che il popolo tedesco abbia voluto in massa, o quasi,la conquista del mondo, sì, è vero; che il popolo tedesco in massa sia stato ingannato, no, è troppo grossa.
L’autore del «J’accuse» troppo battendo sull’inganno afferma la grande inferiorità del suo popolo. Io vorrei dire che l’autore di questo libro avrebbe peccato del difetto d’origine, se invece non lo sentissi più un libro di difesa che di accusa. Perché l’autore deve certo sapere con quale voluttà macabra, feroce, il suo povero popolo ingannato si è tuffato negli orrori delle tragiche carneficine commesse a sangue freddo, dopo l’ubriacatura della guerra, quando deve subentrare la dignitosa cavalleresca lealtà del più forte che abbassa le armi divenute inutili. Egli deve sapere che nel Belgio, contro il quale nemmeno il popolo ingannato poteva gridar vendetta, i soldati del Kaiser hanno bruciato i prigionieri di ogni età, di ogni sesso.
A Gomery il dottor Sedillot aveva impiantato un posto di soccorso. Due bandiere della Croce Rossa sventolavano da un lato e dall’altro della casa, ma i soldati tedeschi invasori, gridando: «Er ist der Krieg der Tods: Kugel in Kopf!» (È la guerra della morte. Una palla nella testa!) incendiarono il posto di soccorso, dove perirono 80 feriti, mentre altri prigionieri venivano cacciati nelle fiamme a colpi di baionetta.
L’autore di questo bellissimo libro che vuol essere umano di fronte a tutta l’umanità, che affronta l’opinione del suo popolo per un senso di giustizia, doveva conoscere questi eccessi, e se non ha in fondo all’anima un resto di quella barbarie che si è risollevata d’un tratto in tutti gli uomini della sua razza, deve aver capito che più dell’inganno, più del tradimento imbastito dai governanti, più di ogni fatto apparente, la ragione prima della guerra voluta dai tedeschi è derivata da quella forza latente della natura loro, da quel profondo atavico lavorio che è come un fuoco roditore coperto dalla cenere, e questa cenere rimestata dalle ambizioni folli di un uomo che si è sognato di rassomigliare a una deità conquistatrice, ha lasciato divampare la primitiva fiamma. E questa fiamma ha distrutta la civiltà tedesca. Nei cicli delle invasioni barbariche si parlerà anche della guerra del 1915.
L’autore ignoto di questo libro di pietà, sa tutte queste cose, conosce la miseria reale del popolo germanico, il sistema di colonizzare le terre d’altri sol per prepararvi l’invasione, e sa anche che il sistema è fallito sempre e fallirà oggi pure, ma dice con un dolore che potrebbe sembrare anche ingenuo: «Ma il popolo, speriamolo, sarà unito, quando verrà il giorno del grande regolamento dei conti, il giorno del giudizio finale, quando ogni colpa sarà svelata e ogni delitto avrà il suo castigo…» e dice che il popolo vuole la pace, la pace, la pace…
Ahimè! non credo a questo bello slancio del popolo tedesco. Il popolo chiederà pace quando avrà molta fame e troppi uomini morti, ma per ritrovar le forze, per ricominciare un altro ciclo di invasioni. La pace, sì, la pace sana, che sia vera pace, ma che venga dall’esempio duro come la scorza del popolo tedesco, la pace che venga dalla forza esultante del popolo latino, il quale dovrà allora assicurare il benessere dei popoli tutti.
La verità che egli, l’ignoto autore del libro, vede, si persuada, l’ha veduta con gli occhi dei popoli latini; il suo popolo non la vede così.
Noi, sì, saremmo capaci di dimenticare i poveri arsi tra le fiamme accese dai barbari, i nostri figli straziati dalle loro armi avvelenate, le terre di Francia e del Belgio, e della Serbia arse dalla furia di una guerra che non trova riscontro per crudeltà di procedimenti; ma loro, no; loro, quando la birra ricomincerà a scorrere, ricominceranno a sognare conquiste, mentre canteranno ubriachi l’inno del lavoro.
Pace, sì, ma pace imposta, ma pace gloriosa che a noi dia pace vera, a loro un po’di educazione morale e la paura di rimanere ancora senza birra.

Dal Secolo