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 1916  febbraio 13 Domenica calendario

La Madonna di Mamà

Capitolo XIII

(Leggi qui la puntata precedente)

La cura di Mitridate
Aquilino andò in cerca di quel poeta per domandargli un poco di bùssola per navigare. Sentiva di essere entrato in mezzo a correnti marine; e la sua navicella, benché tanto innòcua, si trovava sotto minaccia. Fors’anche qualche mina subàcquea. Già! La verità partorisce l’odio, e l’ossequiosità partorisce gli amici. Ma non sempre possiamo seguire le sentenze dei savi.
Trovò quel poeta di pessimo umore, e prima di farlo parlare di quello che l’interessava, lo dovette seguire per tutta la cucina del gran ristorante della letteratura combattente. «Guardate che péntole! che intingoli! E il pubblico, più la roba è sporca, più mangia. Ed io séguito a fare dell’arte pura!».
– Dio, che male anche quello della gloria – pensava Aquilino – che muta in aceto quel poco di zucchero che ha l’uomo.
Forse era per questo che il vecchio bibliotecario soleva ripetere: Dòmine dà mihi nesciri.
Santi numi, se tutti vogliono la gloria, come ci può essere posto per tutti?
Ma se Aquilino avesse cominciato questo discorso, chi sa dove sarebbe andato a finire! E perciò gli grattò un pochino di quella malattia, dicendogli che i poeti sono conosciuti, di solito, dopo molto tempo. Voleva dire, per non sbagliare, «dopo la morte».
Il poeta Emme era anche lui di questa opinione.
– Lei dice – domandò Aquilino – che il senatore non me la perdonerà più?
Il poeta Emme crollò la testa come un medico che fa una diàgnosi disperata. – Però senta: c’è un rimedio: donna Barberina l’ha mai spedita a sentire delle conferenze?
– No – rispose Aquilino, meravigliando.
– Oh, la spedirà! Bene: il senatore deve tenere una série di conferenze. Lei vi assiste, fa la relazione, e loda in modo particolare la grazia, il sentimento, il profondo intuito del bello.
– Cioè quello che non ha.
– Già! E lo vuol lodare per quello che ha? Lei firma i soffietti e ci penso io a far pubblicare.
– Non mi garba, – rispose Aquilino. – E poi senta: io mi sono inscritto in lettere, perché la marchesa ne ha fatta una questione. – Ma scusi: è letteratura italiana quella che fa quel professore?
– Ma lei ignora il mètodo! Per il suo professore, la letteratura è scienza, e per uno scienziato studiare Dante o una tignola, appiccicata a Dante, ha la stessa importanza scientifica. Naturalmente così nascono più tignole che Danti dalla sua scuola.
– Quello che mi sta a cuore – disse Aquilino – è di non disgustarmi con la marchesa, almeno per due o tre anni. Dopo poi… Ed io ho paura che quei miei discorsi dell’altra sera…
– Ma no! – disse il poeta. – Lei si imagini di essere un cavallo delle scuderie della marchesa. L’altra sera lei ha fatto un salto; un po’selvaggio, ma un bel salto. Glielo dico io che non ho l’abitudine di lodare, fatta eccezione delle belle donnine. La marchesa si è sentita lusingata; tanto più che lei era quotato un po’male. Oh, ma ora si è piazzato.
– Perché quotato male? – domandò Aquilino – tutt’al più ero sconosciuto fra quei signori.
– Lo dice lei: lei vi era molto conosciuto…
– Ohimè! Ero illustre? E cioè?
– E cioè si sapeva di lei che lei per esempio non conosce l’inglese, pronuncia malino il francese, non ha viaggiato all’estero…
– Ohimè!
– Viceversa si sapeva che lei distingue con molta attenzione il soggetto dall’oggetto; che lei fa molto conto del filar la lana, domi mansit, lanam fecit; che lei è un ammiratore di Muzio Scèvola; che in politica le piace la candidatura di Cincinnato…
– Ma le mie lezioni! Quel Bobby è un chiaccherone.
– E non solo Bobby; ma la marchesa, e specialmente miss Edith. In una parola, si sapeva che lei vuol nutrire l’ineffabile Bobby di midolla di leone, e che perciò miss Edith e donna Barberina devono sudare quattro camicie… Scusi la metafora, perché oggi le signore non portano più camicia…
– Che?
– Non lo sa che le signore oggi non portan camicia? Ma lei non sa niente! Dunque le signore devono sudare quattro camicie per impedire che Bobby faccia un’indigestione di midolle leonine. Insomma, lei passava per una balia di ottima costituzione fisica, di ottimi costumi, ma un po’grossolana, che può fare morire il pupo. Il senatore diceva, senz’altro, che il pupo cresceva male.
– Ah, l’affare delle fandonie! – esclamò Aquilino. – Come sono suscettìbili questi grandi uomini. Tutto è di poco conto, per essi; ma guai a toccare la loro sacra epidèrmide!
– Il commendatore, poi, – disse il poeta Emme – si divertiva a rappresentare lei come l’uomo primitivo, e diceva: «Da quali monti d’Abruzzo, marchesa, ha fatto scendere quel precettore?»
– L’affare di Giulio Cesare. Idiota!
– Un idiota di ingegno, perché vuole arrivare e arriverà. La marchesa spesso ha preso le sue difese. Ah, vuol sapere il giudizio che miss Edith ha dato di lei?
– Di me?
– Sì, di lei. che lei è a pure-minded man.
– Che vuol dire?
Qualcosa come un uomo ancora vergine.
«Mi dovresti capitar sottomano», pensò Aquilino; e disse:
– Allora è per questo che mi curiosavano tanto, in principio.
– Già! Ed anche per un’altra ragione: che lei è un discreto giovane.
Aquilino arrossì.
– Non arrossisca. Di bei giovani siamo in pochi, oramai.
Aquilino dopo un po’disse:– Giacché lei è tanto penetrante, mi cavi una curiosità: perché miss Edith fa tutte quelle smorfie al senatore…
– La interessa miss Edith?
– Mi interessa…? Mi fa rabbia vedere tutti quei complimenti a quell’uomo…
– È cosa semplice. Sollètica un poco l’ombellico al grosso ippopòtamo perché desidera di ottenere una cattedra di inglese nelle nostre scuole.
– Infatti miss Edith, certo, è istruitissima – disse Aquilino.
– Una deflorata – disse il poeta.
– Sarebbe a dire?
– Una deflorata a tutti gli spigoli dell’intellettualità.
Aquilino stette un po’stupito alla strana definizione. – A me pare intelligente – disse.
– Intelligenza delle donne – disse il poeta.
– Sarebbe a dire?
– Intelligenza dietro un paravento. Quando lei parla con una bella donna, intelligente anche più di un uomo, non le pare di vederla dietro il paravento occupata a impennacchiare e mettere campanelli e nastri ai poeti, ai filosofi di cui parla?
– E quella poetessa? E sempre vicina a me…
– A lei? Oh, anche a me. Quella povera signora vive per la ricerca delle anime alte; e ogni anima alta – maschile, s’intende! – dovrebbe congiungersi con la sua anima. Si ubbriaca con sé stessa ed ignora che di solito l’anima alta maschile se ha bisogno di una donna, questa donna è la cuoca.
– Scusi. Anche la marchesa è autrice?
– Autrice di Bobby.
– Ah, questo lo so. Voleva dire autrice di qualche opera.
– Infatti lei ha ragione. Esiste un’opera, un capolavoro di donna Barberina: lei non l’ha ancora visto.
– Quale? – domandò Aquilino.
– Il marchese suo marito.
Aquilino stette un po’lì, sospeso.
– Scusi, e perché un capolavoro?
– Perché lo ha completamente idiotizzato.
– Idiota?
– Ho detto idiotizzato. Il marchese Don Ippolito sta ritirato in campagna e vive la sua filosofia. Lei mi capisce: quando uno cade nella filosofia è bell’e finito, se pure non si tratta di filosofìa umoristica.
Dio, che cerchio alla testa! Quanti veleni! Per vivere bisognerà cominciare la cura di Mitridate: abituarsi ai veleni.
Capitolo XIV
Il capolavoro della marchesa
A metà dell’inverno arrivò dalla campagna il marito di donna Bàrbera; ed Aquilino vide, con un certo trasecolamento, un uomo di forte persona, di poche parole, rossiccio, due baffacci rossicci, due ciglia corrugate.
Si chiamava Ippolito, ed era l’uomo idiotizzato.
«Sarà idiotizzato; ma sta il fatto che mi dà soggezione», diceva Aquilino a se stesso.
– È arrivato il suo signor padre – disse con tutta prudenza Aquilino a Bobby.
– Ah, sì! Sta lassù – disse Bobby – nella torre di Albraccà, – ed indicò col ditino quella specie di torrione, che Aquilino aveva osservato, la prima volta.
«Albraccà?» – dove aveva inteso già altre volte questo nome? Lontano lontano: eppure lo aveva inteso.
Il marchese fece ad Aquilino un’accoglienza così fredda che il giovane disse entro di sé:
«ma non sono mica stato io che ti ho idiotizzato!».
Ma quando donna Bàrbera spiegò che era stato il conte Cosimo a mettere avanti quel precettore, il volto del marchese si spianò, si aprì come se vi apparisse l’azzurro dell’anima. La sua parola parlò: – Ah, sì? Caro e buon conte Cosimo!
Al nome di Cosimo così affettuosamente espresso, Aquilino dimenticò che era lì a tavola della marchesa; che c’era il cameriere in guanti; e parlò; parlò come il cuore gli dettava, come vuole affetto e natura, come avesse riaperte le vàlvole della sincerità. Ed il marchese Ippolito, appoggiato con la testa su la mano e il gomito sulla tavola, ascoltava con letizia come si ode un racconto della cara giovinezza; e ogni tanto diceva: – Caro, ma sì, oh, un gentil uomo vero! Quanto tempo è che non ci vediamo! E i figli non li avete conosciuti?
– I suoi figliuoli? di chi? Ha figli il conte Cosimo? – domandò Aquilino con molta sorpresa.
– Scusate, caro giovine, in questo momento ero assente col pensiero – disse il marchese. – E una stòria…
– Mi pare che siate sempre assente – disse donna Barberina.
Il marchese o non aveva udito o non volle rilevare la intenzione provocatrice della signora.
– Già, non li potevate aver conosciuti. Uno, credo che sia segretario d’ambasciata a… a… a…
E pareva tutt’intento a cercar dove.
– … a Pietroburgo. Mah!
– E che quando si ha la disgrazia di nascere con un temperamento stravagante – interruppe ancora donna Barberina –, bisogna per lo meno avere il buon senso di non mettere su famiglia.
Le parole di donna Barberina avevano una sottile intonazione di riferimento al di là del conte Cosimo.
Il marchese – questa volta – non poté non rilevare la interruzione: ma spingeva il discorso di sua moglie, indietro, verso il conte Cosimo.
– Stravagante, se così vi pare – disse —, ma un uomo di ottimo cuore e un gentiluomo vero, e quando si è gentiluomini veri come è il conte Cosimo…
– Non si è niente – terminò donna Barberina. – Noi viviamo delle idee e delle convenienze del nostro tempo e non dei tempi di Carlo Magno.
– Piuttosto io direi – corresse con mansuetudine il marchese cercando con gli occhi l’approvazione di Aquilino – che nei tempi nostri si è perduto la conoscenza della parola gentiluomo vero.
– Una parola medievale – disse secca la marchesa.
Ed Aquilino meravigliò vedendo che il marchese non rispose.
Ma poi gli entrò un gran triste pensiero, come una lacerazione nel cuore. «Oh, povero conte Cosimo, chi sa quanto doveva aver pregato quella prepotente signora per fare accettare lui, povero meschino sconosciuto figlio, come precettore! E tu non mi hai fatto capir niente!» Quanto avrebbe pagato per essergli per un momento vicino e, sì, proprio, baciargli la mano sua nobile.
Era venuta la buona stagione oramai, ma Aquilino aveva come il presentimento di un temporale sospeso nell’aria.
I serviti, a tavola, correvano anche con maggior fretta, e subito s’allungava lo spazzolone lieve a sgombrare le briciole; e la tavola veniva abbandonata, anche più in fretta, come un luogo di abominazione.
Aquilino sentiva, anche nella conversazione più insignificante, come uno stridere di contrasti, e stava attento e con paura.
Dal modo come mangiava, il marchese pareva un uomo di formidabile appetito. Avrebbe divorato, e non bezzicato.
Ahi ahi, si andava camminando verso la guerra coniugale, ed Aquilino sentiva di trovarsi in quel territorio di confine dove i due eserciti, marito e moglie, si incontreranno.
– Mi piace, caro giovane – diceva il marchese – perché vedo che lei è di buona bocca come me… Un bicchier di vino non fa male… Ma sì, che lo bevi il vino…
E infatti Aquilino lo avrebbe anche bevuto un bicchierotto, ma se ne asteneva per non far cosa diversa da miss Edith e dalla marchesa, che trattavano quella povera ampolletta come messa lì per pittura: un insulto al dio Bacco.
– Lei osservi – diceva il marchese con soddisfazione, e gravemente passando al lei – e vedrà che il fiore della civiltà è fiorito nei paesi dove abitava il dio Bacco con i pàmpini della dolcissima vite. Dove non c’è il dio Bacco, abita il dio Moloc al sud, ed il dio Thor al nord…
– E l’arteriosclerosi nel centro – disse la marchesa. – Vecchiezza precoce, tendenza al litigio, alla sonnolenza e poi il sangue grosso e quel reticolato vinoso nelle guance. E gli occhi truci.
Più scientifica era miss Edith, la quale veniva in aiuto della marchesa. Miss Edith sapeva che un litro di vino contiene un decilitro di alcool puro, e che le esperienze dimostrano che l’alcool determina la coagulazione della pepsina.
Ma le parole, anzi la sola presenza di miss Edith, pareva esasperare i nervi del marchese: «Oh ecco le truppe scozzesi coi bag-pipes».
– borbottava.
– L’esperienza nel vetro, experientia in vitro, dirà anche così, madamigella, ma l’esperienza nello stomaco – rispondeva poi il marchese – non la conoscono nemmeno i chimici tedeschi. E poi cosa mi fa lei l’elogio della temperanza, che i vostri marinai inglesi si ubbriacano come monne; e ho paura che al bisogno si coaguli qualcosa d’altro che la pepsina!
Guai toccare la marina inglese a miss Edith! Pareva un’aquiletta sboglientata. E tutte e due le donne lavoravano a colpi di spillo contro il marchese. Ad Aquilino faceva compassione, non sapea se più Bobby o il marchese.
«E lasciatelo mangiare e bere a suo piacimento, povero disgraziato – diceva Aquilino fra sé. – Sono piuttosto tutte quelle allusioni che fermano la pepsina!» Ed anche la voce di donna Barberina aveva tutti suoni strìduli: non aveva più la sua voce di flauto.
Dove aveva letto Aquilino la storia di quel santo frate il quale ad una buona femminetta aveva suggerito un miracoloso rimedio per guarire il marito dal vizio di picchiare? Togliete – aveva detto il santo frate alla femminetta – quest’ampolla di acqua benedetta, e quando vostro marito rincasa, mettetèvene un sorso in bocca, ma per carità non ve ne sfugga una stilla! La donna così fece e il marito, con grande letizia della buona donna, non picchiò più. Ma la storiella è dei tempi antichi, quando le donne non sapevano né di lettere né di chimica; perché in quella ampolletta non si conteneva che semplice acqua.
Anche i gusti gastronomici del marchese non si incontravano con i gusti della marchesa.
Quei flans, quelle suprêmes, quei vol-auvent, quella roba en belle vue, quelle salse gli garbavano poco.
– Un bel lesso! un bell’arrosto! delle belle lasagne! – diceva con aria di soddisfazione.
Aquilino avrebbe anche voluto rispondere di sì; ma donna Barberina la quale pareva che si fosse assunta l’incarico di coagulare con parole gelide ogni di lui effervescenza di letizia, disse: – Per impinzarvi e diventare obeso. Nulla è più repugnante dell’obesità.
Aquilino cominciava ad essere un po’atterrito. e l’ora in cui il cameriere suonava i suoi timpani per la tavola gli coagulava la pepsina.
Fu proprio il lesso e l’arrosto la causa di una scena bruttissima: un disgraziato lesso che il marchese aveva cominciato a mangiare con fine appetito.
– Ci vogliono denti di elefante a mangiare questo manzaccio – disse donna Barberina.
(Proprio il marchese aveva grossissimi denti).
– E un’altra volta non più lesso a tavola
– ordinò donna Bàrbera.
– Sissignora, signora marchesa – rispose il domestico.
– Farete il lesso quando lo voglio io! – tuonò come una bombarda il marchese Ippolito, verso il servo; e poi rivolto alla moglie:
– E voi – disse – rispettate almeno il lesso, signora, ché vostro padre, in fondo, poi, ha fatto i milioni avvelenando mezzo esercito con le sue scatole di carne in conserva!
La marchesa ascoltò, non si mosse, sfoderò due occhi da basilisco che Aquilino non aveva mai veduto. Disse con una secchezza atroce:
– Fareste meglio a starvene tutto l’anno fra i villani o a non uscire dal sudiciume del vostro studio.
Il marchese ascoltò come estàtico, parve mandar giù in gola qualche cosa che gli veniva su; e non replicò.
Successe un gran silenzio, ed Aquilino si vide solo a tavola, col cameriere idiota che con lo spazzettone liberava automaticamente la tovaglia dagli abbominevoli avanzi del santo pane.