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 1916  febbraio 13 Domenica calendario

Lavorando lana

Sembra d’avere sotto la palma delle mani un dorso di pecora. E le palme e le dita adagio adagio si lustrano, a pena untuose, con un sentor lontano di vello. C’è questo di nuovo nella mia vita: questa lana, questi aghi, questo ticchettìo in disarmonia col ticchettìo antico dell’orologio. L’attonimento di vedersi crescere in mano un tessuto, maglia su maglia.
E, nell’animo, in quella voce infaticata dentro di me che per me sola parla mentre le stagioni si seguono ritornano identiche, una tonalità forastiera che vorrebbe insinuarsi – d’ironia? d’amarezza? – appena percettibile ma innegabile.

*

Di questi giorni per strada donnette grigiognole guardando passare automobili pieni di feriti sospirano: «Che passione!» Le ascolto, forse con un guizzo benevolo d’invidia.
A marzo, tutto il colle dove mi trovavo era sparso di viole: e, sola, le guardavo, le toccavo, mormorando: che nulla si sperda di nessuna primavera. Nell’estate, ancora di là, scrivevo: arrivederci, che vi son dolci prati e ali e silenzi. E all’altre donne: diciam loro soltanto le tinte dei cieli, e come l’erbe e le fronde sian pallide nei venti.
Ma ora, per le piazze delle città fin nei giorni più lucenti l’aria sa di cime nevose: s’anche per qualche momento l’aspetto del mondo è d’oro, non si può, non basta, cogliere e inviar lontano tali baleni di natura raggiante. E troppe notti son senza stelle. Poter narrare qualche magica fiaba! Imaginazioni, invenzioni mai prima udite, soavi come petali di rose, ridenti, virenti, fole tutte bionde, fragranti capigliature di fantasie, ogni capello è un trillo… Su sfondi ebbri d’acque marine, di fiumi dei tropici. Troppe notti son senza stelle. Crearne, belle meteore, vederle rigare il silenzio, in voto offrirle…
E non si può. Non si sa. Pareva, in principio, allo spirito impavido, che nessuna attività vitale verrebbe mai per la guerra sospesa. Invece, ecco, non si riesce altro che a lavorar lana.
Maglia su maglia. Un atto meccanico. Facile abilitarsi a questo movimento del filo e degli aghi. Si prende, si lascia quando si vuole, si fan dieci punti o cento, così certo come lassù si fan dieci passi o cento, avanti indietro, per tener desto il sangue.
*

Che cos’è una lettera, effusione od anelito? Atto d’abbandono o di dominio?
E una lettera all’uomo in guerra, della donna rimasta con gli occhi pesi per il pianto rientrato.
Dire l’attesa, il ricordo, la fiamma?
O far sentire unicamente la mia volontà di trasmissione, per cui nella mia carne provo fitte gelate come se fossi lassù, e prego che il freddo non salga al cuore?
Questa duplicità, questa ricchezza gravosa, forse in quel fenomeno elementare ch’è la guerra si discioglie, forse in tale intenzione taluno è partito, e ciò che forma ancora il mio male e il mio bene non può ormai significargli nulla.
È «di là» – una cosa unita, compiuta?
Il suo respiro! Ch’ultima ho bevuto su le sue labbra. L’alterna vita della sua anima. Sapere che continua, che ha ancora avidità d’aria e di luce, avidità ancora di crescere!
*

Guizzi di spasimo, repentine strette alla gola, pensiero delle cose non dette quando s’era accanto, di qualche estrema sfumatura di tenerezza non rivelata, di quella definizione ch’essi certo attendevano del loro essere, del nodo dell’anima loro, e che non venne alle labbra, onduleggiò soltanto in qualche istante nel fondo delle pupille, e la scorsero la ghermirono essi o no mentre i cari occhi a lor volta mi riflettevano?
*

E tutto di questo desolato squallore io avevo già provato, nei tempi che si chiamavan di pace: niente m’è nuovo. Se non la materialità, la ferinità della causa.
Mentre pare che si viva da tutti il momento massimo della propria parabola. Gli uni dicono: «l’ora più grande che mai è scoccata». Altri: «chi pensava si potesse tanto sopportare?» Come insigniti tutti d’una rivelazione suprema.
No. Qualcuno no, oltre me.
Ma perfino il bel fratello aureolato che conduce fra i picchi di gelo la truppa con l’ardimento prodigioso che gli valse in tutta la vita a condur la propria venturiera libertà, e limpida gli splende la grazia negli occhi, perfino egli, il nato guerriero, se nulla ha da apprendere per sé stesso in quest’ora, e né da temere né da sperare in un ancor ignoto brivido, si volge con pietoso stupore verso i suoi piccoli soldati, con pensosa pietà ne accoglie il sorriso ch’essi gli mandano sopra alle lagrime del patimento. Soldatini, novizi all’eroismo, novizi alla santità, alla perfetta letizia!
Così stupisco io, se mi dico che quasi tutte queste donne qui attorno tremano per la prima volta davvero, sentono ora soltanto, e soltanto per riflesso, che cosa veramente significhi vivere in pericolo!
L’esercizio spietato di tutti i miei anni non è ancor sufficiente ad impedir ch’io sia dilaniata per tristezze che ritornano, identiche come le stagioni: ma tutte costoro, che, di repente, devon sbarrar gli occhi dinanzi alla crudeltà d’un dato destino, d’una data epoca: impreparate – nessun miracolo di reincarnazione s’era manifestato in esse e le aveva sterzate sin dalla nascita –; devono staccarsi dal figlio dall’amante dalla quiete dal sonno; e le sopracciglia s’alzano interroganti vane; v’ha fra queste donne di quelle che non han mai saputo dormire sole in una stanza; e arriva una chiamata, devono partire come si trovano, sostare in posti sconosciuti, esser trattenute da piantoni inflessibili, giunger troppo tardi…
Già. Diventan simboli. Ecco l’ironia.
*

Come in una gabbia, quante altre volte mi rigirai così fra quattro pareti?
Nel mondo, e dove sole e dove nebbia. Nessuna casa è la mia, sebben ogni stanza dov’io passi s’impregni per sempre di me.
E le fermate di notte sotto le tettoie di ferro, nomi diversi, nord o sud, uno stesso lontanar di fumi rossastri, uno stesso sgancio netto di catene.
Le prode dei campi: quant’altri inverni? Umide, sotto uno svariar di nuvole, con quercie gialle su un filo di orizzonte, o presso ombrie folte d’agrumeti: la terra è dappertutto nera, di novembre.
*

Ma i pianti, d’ore di settimane di anni, a rivoli gelidi o a rare stille roventi; ma le attese, gli strappi, il freddo, lo sfinimento; ma la desolazione di resistere, taciturna e ignorata più di qualsiasi remota sentinella (e la nausea per l’incredibile riserva di forza, o mal di montagna!) tutto, fino alla gioia di cui mi narrerà il fratello guerriero al suo ritorno se mi troverà, gioia ch’io so (gioia nello spazio il saettar del rischio: gioia offrirsi librarsi sentirsi rasente la propria sorte; gioia flettendo l’arco appassionato della propria potenza adorare una violenza sovrastante, alta ed imminente; gioia, gioia il lampo lo scroscio l’erta anima senza più nome senza più terra), tutto, era l’amore, un’idea di germe, di fiore, di puro alito, a farmi fiamma: d’amore costrutta, per l’amore distruggendomi costruivo.
Fermavo degli attimi. Attestavo la vita. Si creavano cerchi d’intendimento, gorghi d’armonia. Valeva la pena di patire, di morire, poi ancora rinascere.
*

Erano uomini. Non erano eroi.
Pensavano la vita una più o meno mal aggiustata cella.
Prigionieri febbrili, rassegnati o torvi. Poveri. Con pallide maschere di motteggio. Odio e compassion di sé stessi. Li consideravo. La natura loro mi stava dinanzi come questo mazzo di corolline, che non esiste per me s’io non l’odoro, se sulla freschezza degli sboccianti petali non socchiudo lieve la mia palma sinistra, se non m’abbandono intera a vibrare con la nota di color giulivo sopra il verde delle foglie e il verde del vetro. Penetrandoli li amavo. Alzavano città, fondavano ordini. E taluno rallevò rose, potò distese d’ulivi, piantò arcipressi su cigli di vallate turchine. Mi dimenticavo di me com’essi mi dimenticavano, mi smarrivo alle invenzioni della loro fantasia, alla visione di quel mondo ch’essi edificavano di fronte al mio, colorivano, musicavano. Li amavo. Poveri. Vili. Con tanto freddo nei cuori. Con tanto terrore delle lagrime. E più ancor delle maschere sarcastiche eran tristi a vedere le corazze d’orgoglio. Ma, quando l’ora suonava, foss’anche una sola, si scioglievan tra le mie braccia, come bimbi tra quelle della madre al buio. Santità del pianto virile, della virile miseria che si confessa. Divinità del dolore senza scampo, se l’amore un’ora lo solleva nudo verso il silenzio eterno.
*

Lontane, assolte, tutte le parole in tutti i tempi udite: che a notte quand’ero piccola mi danzavano in mente strane e non mi potevo addormire, i grand’occhi aperti nell’oscurità; che sapevo il senso che ad esse si dava, e mi divertivano come suono, anche mi commovevano, ma non rompevano la notte, di cui non avevo terrore.
Patria civiltà diritto: mondo natura forza.
*

Ho conosciuto una volta l’infermità: mi colpì alle spalle, un mattino ch’ero vestita di verde e guardavo senza vederlo un mare felice.
Nulla fu mai più avviliente, e più riposante. I tormenti fin allora ignoti delle membra riconobbi che m’eran temporanea distrazione dagli altri dell’animo, maggiori, maggiori. Però la sensazione veniva soverchiata dalla nostalgia della libera sofferenza. Patire, ma non per febbre, non nelle ossa e nella carne: crocifissa, ancora e sempre, ma…
(Si persuadessero almeno del dubbio valore d’ogni nome che diedero alle cose!).
*

Questa fatalità concreta e sanguigna della guerra, riduzione della vita all’unica angoscia fisica, questo assurdo d’un movimento tellurico che dura ininterrotto da mesi, e per cui io son come la donna di minatori che fossero comandati da mesi sotterra – passerà, passerà. Tornerà la pace, l’ordine meccanico, ammanettato. Per tutti sarà stata la grande avventura, così fuor del loro ritmo. Crederanno d’aver sognato questa pausa negli interessi e nelle brighe, sognato un noviziato di santità. Tutti come prima, e tutto. Non si instaura nulla. Qui come altrove. (E io ho prediletto il mio paese in tutta la sua distesa, andando e stando, e la mia razza, italiana m’han riconosciuta lontano nello sguardo e nell’opera, di luce che non cambia tornerò a vedere dopo la vittoria soffusi i golfi i marmi, i poemi). In gloriosa solitudine riappariranno in distanti ore stupite il cuor generoso, il genio, il libero esploratore: ch’essi, e non i cesari, portan le guerre che tentano rinnovare il respiro del mondo. Ultimo ieri forse uno, slavo di razza, teutono di tempra, latino d’anelito, che riaffermò, sì, esser l’uomo nato per la battaglia e la donna per il riposo del combattente, ma, viveva per suo conto del miele del deserto…
*

Donna per diletto del guerriero, per balsamo al vittorioso.
La mia parola gli arriva tra uno scoppio e l’altro di granate, nella ridotta blindata d’acciaio, in mezzo alle nevi. Gli spira alito di fiori e di spiaggia, gli è sostanza di silenzio e di trasparenza, iridescenza di fantasia, comando di speranza.
Non sa la mia voce se non di lungi.
Diletto e balsamo. Bei vocaboli antichi e nuovi. La vita è una sfolgorante fola. Io sono una rondine e con l’ala accarezzo una fronte di condottiero.
*

Poter trasfigurare così per tutti, anche per i menati a branco, la mia disperata coscienza!
Ma perché?
Vedi. C’è chi oggi ha sedici anni. Sguardo d’alba dove ancora tremano, ancora non si spengono le stelle. Che incontra oggi amore e dolore; e sente la meraviglia e lo spavento dell’universo; senza soffrir della guerra, senza pensar alla guerra. Sedici anni. Voce di cristallo. Geloso del proprio incognito, solo. Vive: attimi di perla. Come ai cresciuti presso le rovine d’un terremoto, che indifferenti le guardan ricoprirsi di verdura e d’eternità, sarà per lui il ricordo di quest’èra convulsa. Sedici anni, freschezza, verginità, ruscellante poesia, e piange e sorride, e tacendo dice ch’à sempre esistito
Lascia, suvvia, il tessuto che ti velluta le dita, riprendi la dura cannuccia di legno stinta, scrivi, per te come per la donnetta grigiognola non c’è che la tua passione, volti e destini, e nient’altro è certo, cose che t’allontanano o t’avvicinano, oggi si chiaman guerra e domani chi sa, vita o morte, la morte tua forse prima d’ogni altra, così voglia la vita, tutto è prefisso e tutto è bene, lascia anche la penna, abbraccia, in silenzio abbraccia la realtà del tuo cuore, della tua erta anima senza nome né terra.
Novembre-dicembre 1915.