L’Illustrazione Italiana, 13 febbraio 1916
1816 – Nel centenario del “Barbiere di Siviglia„ – 1916
Duchi impresari di teatri non sono una novità dei tempi nostri. Ve n’erano anche cento anni addietro, giusti giusti; tanto vero che il 15 dicembre 1815 a Roma, fra il duca Francesco Sforza Cesarini e quell’allegro maestro di musica ventiquattrenne e già celebre, che chiamavasi Gioacchino Rossini, fu firmata una «privata scrittura» avente forza e valore «come contratto pubblico» per la quale Rossini veniva «scritturato per la prossima stagione del carnevale anno 1816 (26 dicembre l8l5 – 27 febbraio 1816) per comporre e mettere in scena la seconda opera (buffa) che sarà rappresentata nella suddetta stagione nel teatro indicato e su quel libretto sia nuovo o sia vecchio, che gli sarà dato dal suddetto signor Duca impresario». E la scrittura contratto proseguiva:
«Il maestro Rossini si obbliga a consegnare la partitura alla metà del mese di gennaio e di adattarla alla voce dei cantanti; e si obbliga di più a farvi tutti quei cambiamenti che si crederanno necessari tanto per la buona riuscita della musica come per le convenienze e le esigenze dei signori cantanti. Il maestro Rossini promette anche e si obbliga di trovarsi in Roma per adempiere al presente contratto non più tardi della fine del corrente dicembre, e di rimettere al copista il primo atto della sua opera perfettamente completo il 20 gennaio 1816 (si dice il venti gennaio), affine di poter fare le prove prontamente e di poter andare in scena il giorno che piacerà all’impresario, essendo fissata la rappresentazione verso il cinque febbraio. E cosi il maestro Rossini dovrà ugualmente rimettere al copista, in tempo debito, il secondo atto della sua opera, per poter andare in scena il giorno sopra indicato, altrimenti il maestro Rossini s’esporrà a tutti i danni perché deve essere così e non altrimenti. Il maestro Rossini sarà inoltre obbligato a dirigere la sua opera secondo l’uso e d’assistere personalmente a tutte le prove di canto e d’orchestra tutte le volte che sarà necessario, tanto in teatro che fuori a volontà dell’impresario; e si obbliga anche di assistere alle tre prime rappresentazioni che saranno date consecutivamente e di dirigerne l’esecuzione al cembalo, ecc., perché deve essere così e non altrimenti. In ricompensa delle sue fatiche il Duca Sforza Cesarini si obbliga di pagargli la somma e quantità di scudi trecento romani terminate le tre prime rappresentazioni che dovrà dirigere al cembalo. È convenuto che, nei casi d’interdizione o chiusura del teatro sia per fatto dell’autorità o sia per altro motivo imprevisto si osserveranno le pratiche dei teatri di Roma, ecc. Per garanzia dell’esatto adempimento del presente contratto, sarà firmato dall’impresario suddetto e dal maestro Gioachino Rossini; di più l’impresario accorda l’abitazione al maestro Rossini per tutto il tempo della durata del contratto nella medesima casa assegnata al signor Luigi Zamboni».
Da questo contratto nasceva il capolavoro del genio pesarese. Fu, pare, il duca-impresario a suggerire a Rossini il soggetto, inspirato dalla nota commedia di Beaumarchais il Barbiere di Siviglia, o sia l’inutile precauzione – dato a Roma – come leggesi nella «avvertenza» al libretto d’allora, col titolo «Almaviva ossia l’inutile precauzione».
Trentaquattro anni prima un maestro illustre, Giovanni Paisiello, direttore, nel 1816, del Conservatorio di Napoli aveva già musicato il Barbiere. E Rossini nella medesima «avvertenza» – certo, riflettendo che Paisiello era un beniamino del pubblico teatrale romano, e che il teatro Valle, dove la musica di Paisiello era in onore, avrebbe potuto fare pericolosa concorrenza al Nobile Teatro di Torre Argentina – aveva fatto dire che esso maestro Rossini «onde non incorrere nella taccia di una temeraria rivalità coll’immortale autore che lo ha preceduto, ha espressamente voluto che il Barbiere di Siviglia fosse di nuovo interamente versificato e che vi fossero aggiunte parecchie nuove situazioni di pezzi musicali, che erano d’altronde reclamate dal moderno gusto teatrale, cotanto cangiato dall’epoca in cui scrisse la sua musica il rinomato Paisiello…».
La nuova «versificazione» la fece il poeta romano Cesare Sterbini, il quale si assunse l’incarico il 17 di gennaio, obbligandosi a consegnare il 1° atto versificato il 25 dello stesso mese, ed il 2° atto il 29 – che allora, almeno le opere in musica, auspice Rossini, procedevano a tamburo battente; mentre per tutto il resto c’era tempo da aspettare.
I molti biografi rossiniani, che hanno scritte tante fantastiche cose, cominciando con lo sbagliare, innanzi tutto, la data della prima rappresentazione del Barbiere indicando il 5 febbraio, lunedì, mentre fu il 20, martedì – i biografi narrano molte allegre cose, e fra altro che nella casa ove il maestro ebbe «per scrittura» l’alloggio, e nella quale abitava anche il buffo Zamboni, aveva la sua stanza anche il tenore Garcia. Le stanze mettevano in un salotto comune nel quale il maestro aveva il cembalo o spinetta. In quell’anticamera Rossini, passò quasi ininterrottamente i tredici giorni dal 26 gennaio al 7 febbraio – spesso assillato da Garcia e da Zamboni – e in quel giorno 7 fu distribuita per le prove la musica del l° atto del nuovo Barbiere.
Rossini, che, malgrado la spensieratezza del temperamento e dell’età, era preoccupato del giudizio che avrebbe potuto fare del suo procedere Paisiello, aveva scritta a Napoli al celebre maestro una lettera carezzevole, per spiegargli come si fosse trovato a non poter rifiutare il tema suggeritogli dal duca, e chiedeva a Paisiello una specie di consenso. Questi risposegli con una certa freddezza; ma dicendogli che facesse pure liberamente. Ed i biografi aggiungono che coi suoi fidi amici di Napoli Paisiello ebbe a dire: «Se il Barbiere che Rossini sta scrivendo trionfa, io sono spacciato».
E i paisielliani di Napoli non tralasciarono d’intendersi con gli amici paesielliani di Roma, perché all’allegro Rossini venisse preparata l’accoglienza che vedremo.
Il duca Sforza Cesarini, che ci teneva a che il Nobile Teatro di Torre Argentina superasse il concorrente Valle, aveva detto – pare – a Rossini, per vincerne le preoccupazioni: «– Che importa di Paisiello?... La sua musica non si rappresenta più. E poi… sorgeranno contrasti fra i suoi partigiani ed i nostri… La speculazione verrà buona, e voi certo farete il vostro capolavoro!...».
Peccato che il duca non poté vedere la realizzazione delle sue previsioni. La mattina del venerdì, 16 febbraio, il duca aveva assistito all’Argentina alle prove, che tenevano in ansia tanto i paisielliani che i rossiniani, e la sera, povero duca, moriva improvvisamente, a soli 43 anni. Non era questo per l’opera nuova di Rossini un allegro presagio!... Per designazione della madre del duca – Maria Anna principessa di Genzano – don Francesco essendo scapolo – toccò al segretario della casa ducale, Nicola Ratti, provvedere a che la stagione teatrale dell’Argentina arrivasse al martedì grasso – e non mancavano che undici giorni. La nuova opera di Rossini era, in fatti, una grande speranza della stagione; e la sera del martedì, 20 febbraio, al teatro Argentina vi fu un pienone – ma vi furono anche grossi guai.
Gioacchino Rossini, intanto, andò a teatro, in orchestra, con un suo stiffelius color nocciola e con bottoni dorati, che a Roma tutti già conoscevano, e che i paisielliani fecero subito notare, qualificandolo una mancanza di riguardo, una canzonatura per il pubblico. Il quale lasciò passare l’Ouverture quasi tra l’indifferenza. Il tenore Garcia – capo di una famiglia tutta di artisti, culminanti poi nella celebre Malibran – aveva scritta, coll’assentimento di Rossini, la serenata Se il mio nome saper voi bramate. All’ultima strappata che deve preludiare alla cadenza di bravura gli si ruppe seccamente una corda del mandolino. Risa, grida, fischi… «Io non aveva cembalo sotto le mani – narra lo stesso Rossini – e gridai, ma invano, al violoncello di fare un arpeggio in pizzicato. Quell’animale mi guardava con un’aria di melenso; non capiva. Furioso dell’ingiustizia del pubblico, cominciai allora a sfidar le fischiate applaudendo io stesso il cantante, e il pubblico esasperato della mia audacia gridava: «l’abito nocciola si fa beffe di noi!...» E i fischi e le grida, diventavano urli di rabbia.
Né qui fu tutto. All’uscita dalle quinte di Don Basilio, costui inciampa in una sporgenza dell’impalcato, cade in avanti, si ammacca il naso. Il pubblico a tutta prima crede si tratti di una facezia prescritta dal libretto, e grida contro la urtante volgarità. Il povero Don Basilio – il basso Vittorelli – col sangue che gli cola dal naso, canta ugualmente la famosa aria «la calunnia è un venticello» e il pubblico spietato accompagna con fischi terribili il calare della tela sul primo atto.
Quando il sipario si alza per il secondo atto – che allora il Barbiere si dava in due atti e non in tre come ora – ecco avanzarsi sulla scena un gatto, che una pedata di Don Bartolo fa ruzzolare e scappare pel palco scenico con grande spavento di Rosina – la briosa bolognese Geltrude Righetti Giorgi, che fugge strillando dalla scena, suscitando nuovi urli e fischi. Una voce gridò persino: «ecco li funerali del duca Cesarini!...» E fischi ed urli accompagnano l’opera fino alla fine, tanto che Rossini se la svigna per una porticina laterale, correndo a chiudersi in casa deciso a non voler vedere più nessuno.
I paisielliani erano trionfanti; i rossiniani, che in teatro e fuori avevan sostenute persino delle colluttazioni, vollero la rivincita – e questa venne la sera del mercoledì 21 febbraio. I paisielliani non si sognarono nemmeno di andare a teatro; il pubblico incuriosito dalle dicerie corse nella giornata, affollò abbastanza la sala, ascoltò attentamente la musica, la gustò, l’applaudì, e chiamò ripetutamente il maestro, che si era ben guardato dall’andare al teatro. A rappresentazione finita i rossiniani, con torce a vento, andarono fino alla abitazione di Rossini, che dormiva. Grida, applausi lo svegliarono di soprassalto, mentre amici invadevano la sua stanza. Credette ad una nuova scenata di furore del pubblico, ed era invece il trionfo, per la gloria… che dura da cento anni, e durerà chi sa fin quando ancora.
Tanto vero che, a celebrare il Centenario, l’Argentina a Roma, la Scala a Milano, hanno rievocato nelle scorse sere il secolare Barbiere, ed hanno riveduto il trionfo del 1816. In quel medesimo anno il Barbiere andò subito per tutti i maggiori teatri d’Europa. Allora l’America non era ancora nell’itinerario delle tournées. In un vecchio diario del teatro ducale di Parma, notandosi l’andata in scena del Barbiere dopo una fila di opere serie, il cronista nota: «Giungesti opportuno, o matto barbiere, a dissipare la tristezza che ne stringeva il cuore pelle scene truci della Zaira, dell’Oreste e della Semiramide!...» Gli è che nel Barbiere il genio di Rossini aveva prodigata tutta l’allegria dei suoi ventiquattro anni – giovinezza perenne, interpretata con un’arte insuperata, rallegratrice dei cuori per volgere di secoli!...