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 1916  febbraio 13 Domenica calendario

Noterelle teatrali

La prigioniera, di Oreste Poggio. Lietissime accoglienze ha avuto, lunedì sera, a Milano, quest’ultima commedia del Poggio, che giungeva preceduta dal richiamo sempre allettatore d’una movimentata prima rappresentazione romana nella quale la sua fortuna si sarebbe, d’un tratto, bruscamente determinata per la sapiente violenta conquista dell’interesse del pubblico. Quello del Manzoni, invece, non ha menomamente contrastato, sin dalle prime scene, il riconoscimento delle virtù personali di questa commedia pensata, disegnata ed espressa con probità di persuasione e con l’intento sensibile d’uscire dal solito stracco convenzionalismo scenico, – per quanto, almeno, è possibile, – e offrirsi in una sua sincerità, forse un po’ tormentata, ma non mai sofisticata o lambiccata dalla vecchia alchimia di palcoscenico. Il caso drammatico che s’è presentato nei suoi tre momenti essenziali, non è nuovo come impostazione; ma, nel dibattito scenico, trova atteggiamenti personali, derivandone un contrasto verbale vivo sobrio serrato efficace, cui giova, per le concessioni inevitabili al teatro, servite con molta discrezione, qualche pausa di garbata piacevolezza indotta non oziosamente nel rigoroso svolgimento dell’azione. Questa è tutta raccolta attorno a una figura di donna, Emilia. Moglie infedele d’un marito ricco e non più giovane, accesa perdutamente d’un suo impiegato senza scrupoli – il quale non ha esitato a commettere de’ falsi in danno del proprio principale, bassamente calcolando sull’impunità che l’amor proprio dell’uomo derubato e tradito gli assicurava – scoperta da una meditata imprudenza del suo amante, essa, sola, fronteggia la crisi che si scatena su di lei, difendendo animosamente il proprio umano diritto – si sa: il solito diritto convenzionale delle coscienze accomodanti – e, insieme, quella che ancora le pare la scusabile aberrazione dell’uomo amato. Ma il marito, cui importa sopra tutto di difendere contro le insidie della vita l’illusione amorosa della donna, le impone un rigido dilemma: o rinunciare per sempre all’amante, o perderlo inesorabilmente dinanzi ai tribunali.
Bisogna, dunque, rinunciare e acconciarsi a vedere nell’ombra d’un ostinato rammarico, senza tregua, ma anche senza rassegnazione: ché, morto dopo pochi mesi il marito, ecco Emilia riafferrarsi disperatamente alla sua cara follia e correre, animata dai propositi più determinati, a strappare le prove accusatrici dalle mani d’un amico del morto che gliele ha commesse perché rimangano, barriera insormontabile, contro la felicità de’due colpevoli.
Ella sa: l’amico, prima ancóra del suo matrimonio, l’aveva desiderata, l’avrebbe voluta e, ora, del suo rifiuto s’è, forse, fatta un’arme di rappresaglia gelosa. E non importa. Per raggiungere l’intento e ridare la tranquillità all’uomo indegno che le ha turbato la pace, Emilia è disposta a tutto, anche al sacrificio della sua dignità di donna e d’innamorata. Ed ecco interporsi provvidamente, a risparmiarle la nuova onta, la gelosia vigile, guerriera e alleata d’una moglie.
Ma – ahimè! – quando le testimonianze accusatrici della colpa non sua sono tra le mani febbrili di Emilia, solo allora ella intende finalmente che l’amante s’è sempre servito di lei per un suo volgare fine arrivistico: e piange, allora, nello sconforto ineffabile, la sua povera anima, eterna prigioniera d’un sogno impossibile.
La commedia non è, certo, senza mende, senza squilibri e – pur nella sua assidua ricerca della verità – senza ingiustizie: anzi, si conchiude, con troppa disinvoltura, sopra un’acquiescenza morale che, se può avere una ragione di contrasto psicologico e tocchi una circostanza soltanto episodica, non è, per questo, meno deplorevole: ma essa tiene sempre desto l’interesse degli spettatori per una sua intrinseca forza, non solo verbale, cui diede peraltro il più fedele e valido rilievo l’interpretazione mirabile di Giannina Chiantoni, di Ernesto Sabbatini e di Camillo Pilotto. I coniugi Baghetti furono anch’essi molto ammirati in due figurine garbate cui conferirono un senso di comicità gustosa e signorile. Autore e interpreti furono molto applauditi ad ogni atto, e anche a scena aperta: e il lietissimo successo – l’augurio è proprio meritato – avrà certamente nelle repliche durabile eco.
Le memorie di Don Rodrigo, commedia in 3 atti de’ Fratelli Quintero, rappresentata dalla compagnia d’Ermete Novelli al Lirico di Milano la sera del 3 corr., v’ebbe accoglienze abbastanza liete le quali furono più ridotte a quel tòcco di grazia ingenua, un po’morbida e sospirosa, del quale appaiono segnate le figurine femminili che si muovono, leggère e chiacchierine, nel pittoresco contorno scenico cosi caro ai due fecondissimi autori spagnuoli – i quali ormai hanno preso cittadinanza sul nostro teatro – che non alla debolissima struttura organica della commedia frammentaria ed episodica.
Le memorie, nelle quali il vecchio e caustico Don Rodrigo Leal ha fermato la sua sagace esperienza degli uomini e delle cose, hanno ben poco a vedere con gl’intrighetti ingenui e leggiadri orditi dalle piccole anime di sogno che, sullo sfondo della miserevole rovina economica della vecchia casa patrizia, riescono a ordire le delicate trame d’un idillio il quale spianerà in un indulgente sorriso, le labbra del vecchio signore un po’increspate d’amarezza.
L’arte de’ Quintero, cosi minuziosamente analitica e tutta sussurri, bisbigli, sospiri, è come un grande mosaico sentimentale che, sul palcoscenico, finisce a smarrirsi – un po’anche per la nostra diversa abitudine etnica: – forse il libro potrebbe offrirle una più armonica e delicata cornice.
Ermete Novelli, da quel grande animatore ch’egli è per semplice virtù istintiva, se non ebbe, nella commedia, campo di mettersi pienamente in valore, come, per esempio, nel Centenario,pure seppe spesso trovare degli accordi squisiti con la fresca sensibilità delle anime di fanciulla che gli facevano amabile corona.
Mario e Maria, la piana e gioconda commedia di Sabatino Lopez che, per tante sere, ha straordinariamente affollato in questi ultimi tempi le scene milanesi, ha iniziato, come meglio non si potrebbe, la sua corsa vittoriosa pei maggiori teatri italiani, accolta dovunque con cordialità ospitale e insolitamente concorde dal pubblico e dalla critica, disarmata quest’ultima da quell’irresistibile vena di bonario umorismo che è la qualità più personale del Lopez. Ci giunge, di questi giorni, a breve distanza l’una dall’altra, l’eco festosa della vittoria riportata la sera del 4 corrente al Politeama Margherita di Genova con la compagnia Carini-Gramatica-Piperno e la sera successiva, con non meno lieto clamore al Valle di Roma, interpretata dalla compagnia di Tina Di Lorenzo e d’Armando Falconi. Non per questo, però, Lopez dorme sugli allori: ché anzi, se ci è lecito tradire una sua recente confidenza, egli avrebbe pronte – o quasi – per la rappresentazione, ben tre commedie. E dopo c’è ancora chi accusa di inerzia gli autori italiani! Mario e Maria uscirà quanto prima in un bel volume della raccolta del teatro italiano contemporaneo che la casa Treves tiene sempre viva e verde.