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 2016  agosto 15 Lunedì calendario

Ancora in morte di Ettore Bernabei

Antonio Dipollina per la Repubblica
La Rai era “di Bernabei”, dopo di lui fu la Rai e basta. Chi c’era ricorda l’enorme feticcio con cui potevi individuare il nemico, nel moloch del monopolio democristiano che ti invadeva via televisione. Ricorda forse anche il respiro ampio che si produsse con la riforma, nel 1976, con Bernabei fuori dopo 14 anni, e via di Tg2 rivoluzionario e di Dario Fo che torna e in prima serata. Eventi veri, perché prima la Rai “d.B.” Fo lo aveva cacciato da Canzonissima (oggi il Nobel ricorda con vago astio, accusando gli intellettuali attuali – «allora sì che si indignavano» – e glissa un po’) mentre quel sulfureo quanto immerso d’incenso direttore generale gestiva l’Italia per la – enorme – parte che gli competeva con poche ma sentite regole: educare con la tv, valorizzare lo spirito nazionale e le sue qualità, rasserenare gli italiani la sera, essere in missione per conto di Dio e dei suoi rappresentanti in Terra.
Un calderone imponente, quella Rai, che mescolava varietà di prim’ordine (ma lo si scoprì molto tempo dopo), la cultura via sceneggiati, tribune politiche micidiali e mai dopo le 22 perché un politico è meglio che lo veda un italiano ancora sveglio, per quanto possibile. Nomi clamorosi da snocciolare poi in sede di bilancio – Biagi, Ronchey, Arrigo Levi, Barbato ma anche l’intuizione Arbore – lasciato però libero solo dopo il 76 – episodi da leggenda, le Kessler (80 anni a giorni) sgambate ma velate di nero come simbolo di tutto, si può ma con misura: mentre invece le Veline, disse poi, facevano venire voglie insane e siccome poi l’italiano qualunque non riesce a soddisfarle quelle voglie allora va a dormire contrariato. C’è del genio, nella sintesi.
Per non dire del maestro Manzi e dell’analfabetismo o del chiedersi ogni due secondi se la tal cosa, mandata in tv, avrebbe provocato danni. C’era una logica, per quanto opprimente, c’era soprattutto il sistema di potere che ebbe in quella Rai un baluardo d’eccezione: ovvio che diventasse per gli spiriti liberi l’incarnazione del male assoluto. Per rimpiangerla (!) ci sarebbe stato tempo e sarebbe avvenuto proprio sulle basi di quello che Bernabei predicava: siete sicuri di voler liberare dalla gabbia il mostro televisivo? Lo sapete cosa succede dopo? Ora lo sappiamo. Così come a mezza voce viene ricordata la sua sentenza sul popolo dei telespettatori («Venti milioni di teste di c.») che lui in numerose occasioni provò a smentire ma una smentita vera, insomma, è fatta in un altro modo.
Un solo nemico letale, il telecomando. La Rai “d.B.” era monopolio e si prendeva tutto il potere, senza scrupolo. Sornione, ma anche alzando la voce, nei decenni successivi Bernabei tornava sull’argomento e il senso era: «Siete contenti adesso?». Un lungo dibattito, oppure no, meglio farne storia. E forse, continuando con la missione di cui sopra, il capolavoro vero è stato la Lux, che ancora oggi fornisce alla Rai il prodotto seriale più visto, ovvero Don Matteo. Cos’è, in fondo? Il Vangelo diffuso negli anni Duemila da un biondino con gli occhi azzurri. Negli ultimi anni i cattolici sono sempre andati di meno in Chiesa e hanno visto sempre di più Don Matteo. E forse per l’esistenza di quest’ultimo, nelle gerarchie vaticane, non si sono mai preoccupati più di tanto per la crisi: ci pensava come sempre Ettore il Patriarca, con l’ultima delle sue creazioni perfettissime.

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Massimiliano Panarari per La Stampa
Plasmare l’immaginario con le narrazioni. Potrebbe sembrare un imperativo da Villaggio globale massmediatizzato, ma c’è stato chi se lo era prefisso come obiettivo per il Belpaese quando la tv era ancora in bianco e nero (e monocanale). Questa era, infatti, e in maniera molto consapevole, la vision di Ettore Bernabei, che si affiancava alla mission di fare gli italiani. Con quell’intento e cipiglio pedagogico che, alla luce delle successive neo- e trans-televisione impostesi dagli Anni 80 in avanti, appare alquanto vintage e non più proponibile, ma dotato di una lucidità e una progettualità da molti punti di vista uniche. E i risultati ci furono, eccome: alla Rai riuscì quell’unificazione linguistica della nazione che non si era ancora davvero compiuta quando Bernabei (nel 1961) assunse l’incarico di direttore generale. La programmazione della sua Rai - davvero, in tutta la sua solennità, l’ultima manifestazione del paradigma della «tv di Stato» - rappresentò quanto di più lontano dagli eccessi trash poi dilaganti in vari settori della tv commerciale (ma anche pubblica, sempre più orfana di una chiara ragione sociale). Il bernabeismo, insomma, agli antipodi dell’egemonia sottoculturale televisiva e del berlusconismo, sua bestia nera. E portatore, invece, di un preciso progetto di egemonia culturale e politica al servizio della Democrazia cristiana «partito-Stato» (e archetipo del partito della Nazione, come si direbbe oggi), di cui il dg Rai (già direttore de Il Popolo «di rito fanfaniano») fu uno degli autentici grand commis.
Bernabei, figura idealtipica del primato della politica nella Repubblica dei partiti, si incaricò della missione di accompagnare il racconto della modernizzazione del Paese negli anni del boom (e la nuova autopercezione da parte degli italiani che ne risultò), evitando, al medesimo tempo, che la grande trasformazione economica generasse «derive laiciste» o «virus ideologici» destabilizzanti il corpo sociale. Proprio qui stanno le radici del Bernabei censore e moralista, oltre che nella marcata fede cattolica e nell’ascolto attentissimo delle indicazioni (e pressioni) d’Oltretevere. Un grande uomo di tv che lavorò insieme ai formidabili talenti intellettuali che facevano i funzionari Rai a quei tempi, e altresì, un notevole uomo di mondo, nella maniera «dorotea» caratteristica dei democristiani. Lo testimonia, a ben pensarci, il famoso e famigerato episodio della calzamaglia per le gemelle Kessler, che salvaguardava la «pubblica morale» e non minava la famiglia, ma attizzava contemporaneamente le fantasie erotiche di quello che doveva rimanere il «buon padre» di famiglia. Il suo «troncare, sopire» diventava invece ferreo in ambito politico, come quando revocò a Dario Fo e Franca Rame la conduzione di Canzonissima per uno sketch su un costruttore edile che se ne infischiava delle norme antinfortunistiche; perché la posta in gioco qui non erano le gambe delle ballerine, ma voti e mobilitazioni operaie.
Patriarca e dominus di una concezione rigidamente paternalistica del piccolo schermo, convinto popperianamente che la tv la dovesse fare chi aveva studiato (e bene), Bernabei scommise sull’idea dell’ente radiotelevisivo di Stato come gigantesca agenzia educativa. E visto che non c’erano i serial Usa come romanzo d’appendice della postmodernità, e il direttore generale aveva dalla sua un solido background letterario, i pilastri dell’impresa pedagogica divennero alcune opere fondamentali e i testi sacri. Formare buoni cittadini - e «elettori responsabili» - attraverso narrazioni (e che narrazioni!) e l’informazione (come il rivoluzionario rotocalco Tv7). Storytelling a colpi di fiction, con sceneggiati tratti dall’Odissea, da Manzoni e Tolstoj, dagli Atti degli Apostoli (affidati a Roberto Rossellini) e dal Vangelo (il Gesù di Franco Zeffirelli).
Certo, era la tv del monopolio, che aveva «la potenza di una bomba atomica» (come diceva lo stesso Bernabei) e, all’epoca, la convergenza digitale, il pluralismo catodico e l’offerta multipiattaforma nessuno poteva neppure sognarseli. Ma quella dieta mediatica, pur con i suoi limiti, ha fatto da sottofondo civilizzatore a un Paese che cresceva e sprizzava ottimismo e fiducia in se stesso da tutti i pori. E Bernabei capì benissimo, e con lungimiranza, che l’immaginario conta e produce effetti molto concreti. 

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Silvia Fumarola per la Repubblica
«Bernabei non era autoritario ma autorevole» dice Pippo Baudo. «Mai più incontrato un direttore generale forte come lui. Forse solo Biagio Agnes, che però era affettuoso, accogliente. Bernabei dava del lei, sempre».
Baudo era intimorito?
«Ricordo quando ci andai a parlare la prima volta. Allora la programmazione iniziava alle 16 con la Tv dei ragazzi, io facevo Settevoci alle 18 ma Bernabei lanciò il tg alle 13 e fui anticipato a mezzogiorno».
Che gli disse?
«”Direttore, mi rovina, mi mette in un orario in cui non c’è pubblico”. Lui mi fissò: “O grullo se non metto uno come te prima del telegiornale, il tg chi lo vede?”. Aveva inventato il traino. Uscendo dalla stanza rilanciai: “Però direttore, la sera lo replichiamo su Rai-Due”. “Va bene” fu il patto “ se ci fa una piccola aggiunta”. E m’inventai il “disfidone”».
La Rai di oggi cosa deve a Bernabei?
«Tanto. Il passaggio da Via del Babuino a Viale Mazzini si deve a lui, lui fece fare il palazzo di Viale Mazzini. Capì l’importanza delle sedi regionali. Era un democristiano molto aperto, era stato il preferito di Fanfani ma non era ottuso, ascoltava chi non la pensava come lui».
Davvero quella televisione unì l’Italia?
«Certo. E portò la cultura in case dove non c’erano libri e andava a teatro. Grazie a Gadda, Bolchi, Majano, D’Anza, Bernabei fece entrare i classici, la sua era una televisione popolare colta. Ebbe la fortuna di avere grandi collaboratori, Fabiani, Gennarini, Milano, Salvi, tutti di formazione cattolica progressista».
Un direttore che gli assomiglia?
«Autorevole come lui c’è stato solo Biagio Agnes che si è speso tanto. Ma erano molto diversi: Bernabei era dotato di autocontrollo, sapeva essere gelido; Biagio era più aperto, più istintivo».
Perché Bernabei ha lasciato il segno?
«Rispettava il pubblico, sapeva che ogni parola andava pesata perché doveva essere interpretata dal pubblico alto, medio e basso. Era stato scelto dalla politica ma ha fatto il direttore generale della Rai, non il direttore generale della Dc».

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Silvia Fumarola per la Repubblica 
Ugo Gregoretti in Rai è stato un innovatore: da Controfagotto alla regia provocatoria del Circolo Pickwick, sceneggiato del 1968 in cui entrava in scena come un giornalista che commentava i fatti. I rapporti con Bernabei non furono idilliaci. «C’è sempre stata un po’ di diffidenza reciproca» Gregoretti, racconti.
«Lavoravo ai primi numeri di Controfagotto, e fece su di me un commento: “Il tipo gli è furbo, si è messo in vetrina” . Sinceramente non ci avevo mai pensato e poi ho capito».
Cosa?
«Che si era fatto un’idea su di me. Gli chiesi l’aspettativa perché avevo ricevuto la proposta di girare I nuovi angeli il mio primo film. Volevo diventare regista di cinema. Scaduto il termine lasciai la Rai, scelta che scatenò la riprovazione bi-familiare, dei miei genitori e di quelli di mia moglie Fausta. Il posto in Rai era una dote».
Com’era la Rai di Bernabei?
«La Rai aveva un’élite di intellettuali ideatori di programmi di qualità superiore, erano i “corsari” dell’ex direttore Guala: Sanvitale, Silva, Eco, Gugliemi, Colombo, Vattimo. La Rai diventò un’altra grazie a questa trasfusione di intelligenze. Quando Bernabei arrivò se li trovò, il suo ingresso coincise con l’entrata in fase operativa dei “corsari, tutti giovani, tra i quali io, stra-raccomandato».
Cosa successe col “Circolo Pickwick”?
«Lo vide in anteprima e rimase entusiasta. Ma siccome gli indici di gradimento furono deludenti - era un petardo nello stagno della domenica dello sceneggiato classico alla Majano - ebbe un effetto deflagratorio. Bernabei mi chiamò e mi mostrò un elenco di indici di gradimento da cui risultava che al penultimo posto c’era il Circolo Pickwick e all’ultimo il film di Dreyer. Presi il foglio e lo capovolsi, così al primo posto c’era Dreyer e poi Pickwick. Mi dissero che per cinque anni non avrei più più messo piede in Rai e in effetti così fu. All’epoca non veniva considerato questo alfiere della democrazia televisiva, non andava di moda elogiare Bernabei, anche se di grandi innovazioni ne ha fatte».
Vi siete più incontrati?
«Ero convinto di essere nel libro nero, invece accettai un suo invito a un incontro: quando mi vide si alzò e mi prese sotto braccio. Lo ringraziai, un po’ stupito, si vede che mi aveva riabilitato».

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Mario Stanganelli per Il Messaggero 

Con Ettore Bernabei, scomparso sabato notte, non muore solo uno storico direttore generale della Rai e appassionato giornalista, ma un uomo che ha lasciato la sua impronta, in un settore vitale della società italiana in anni fondamentali per la crescita del Paese. Fiorentino di nascita, Bernabei ha in Toscana due fari a portata di mano per la sua formazione culturale e civile: Giorgio La Pira, il sindaco santo di Firenze, e Amintore Fanfani. Ed è proprio lo storico leader della Dc che lo chiama nel 56 a Roma a dirigere Il Popolo quotidiano del partito negli anni in cui Fanfani, alla sua prima segreteria dello Scudo Crociato costruisce, nel solco dell’insegnamento di De Gasperi, il disegno di ammodernamento del Paese che aveva già preso le mosse con il Piano casa del 49 e che doveva poi condurlo, come elemento determinante assieme a Moro, Nenni e La Malfa, alla svolta dei governi di centrosinistra.
IN RIVA ALL’ARNO
Ed è proprio quella stagione in riva all’Arno che rievoca Matteo Renzi nel suo ricordo dello scomparso: «Una delle figure più significative dell’Italia del dopoguerra - lo definisce il presidente del Consiglio -. Un fiorentino vero, appartenente in tutto e per tutto alla grande stagione della Firenze cattolica del secondo Novecento, legato culturalmente e spiritualmente prima ancora che politicamente a La Pira e Fanfani». Ricordata l’emozione dell’ex direttore generale Rai nel ricevere dalle sue mani di sindaco di Firenze il Fiorino d’oro, Renzi sottolinea che Bernabei «è stato qualcosa di più di un manager di Stato, avendo vissuto in prima persona alcune pagine di grande rilievo anche della politica estera del nostro Paese».
Nel suo messaggio di cordoglio, Sergio Mattarella ricorda che «con Ettore Bernabei scompare una grande figura di giornalista e intellettuale. Fu protagonista - afferma il capo dello Stato - della costruzione di una radiotelevisione pubblica, sempre rispettosa del suo pubblico e impegnata con ambizione ad accompagnare lo sviluppo del Paese».
A parlare con passione dell’eredità morale lasciata da Ettore Bernabei, i cui funerali si terranno martedì alle 11 nella chiesa di Sant’Eugenio a Roma, è il figlio Luca: «Il bene comune. Questa la lezione della vecchia scuola, dei suoi maestri Fanfani e La Pira, che rimarrà per sempre scolpita nella roccia». Quanto agli spettatori della tv pubblica, allora in regime di monopolio, Bernabei sosteneva che «se si propongono contenuti positivi, l’uomo tende verso le cose alte, se invece la tv punta a intercettare gli istinti più bassi finisce per assecondarli». Al fondo del suo atteggiamento, dice ancora Luca Bernabei, c’era «l’ottimismo della fede, una grande speranza nel futuro», che ha coltivato anche nella vita quotidiana fino agli ultimi giorni della sua vita.
Anche Giorgio Napolitano ricorda che Bernabei «ha identificato la sua vita con il più intenso ed operoso impegno per lo sviluppo del servizio radiotelevisivo pubblico, ha ricoperto in seno ad esso responsabilità dirigenti di primo piano, e anche in altri ruoli - osserva l’ex capo dello Stato - ha dato contributi rilevanti sul piano inventivo e produttivo». «Con Ettore Bernabei - dice a sua volta Pier Ferdinando Casini - scompare uno dei grandi della nostra Repubblica. Un uomo straordinario nel suo spirito imprenditoriale, nel suo impegno culturale e nella sua vocazione di cattolico integrale». Ultima considerazione di Casini: «Rimpiangeremo a lungo, con il grande Ettore, questa stagione dell’Italia e questi suoi giganteschi protagonisti».
OMOLOGO
Ed è Antonio Campo Dall’Orto a cogliere, come «elemento fondativo» dell’eredita del suo omologo di oltre 40 anni fa, la visione di una Rai come «rappresentazione dell’identità collettiva, luogo inclusivo in grado di raccogliere tutti». «Per noi - afferma l’attuale dg di viale Mazzini - è fondamentale, oggi come ieri anche se in forme diverse, essere servizio pubblico, una tv in grado di servire il Paese nel momento attuale: è questa la prima lezione che resta dell’esperienza di Bernabei». Al direttore generale fa eco la presidente della Rai, Monica Maggioni, che così sintetizza la lezione di Bernabei: «La capacità di visione, l’impegno per la costruzione della cittadinanza e dell’identità del Paese, il ruolo della Rai come guida e punto di riferimento certo di fronte alla frammentazione delle fonti di informazione».

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 Claudio Marincola per Il Messaggero
«All’inizio mi metteva soggezione, ricordo il primo incontro: mi tremavano le gambe. Emanava un’aureola di serietà, di potere dogmatico e assoluto, un uomo autorevole ma non autoritario, pregio rarissimo. Poi col passar del tempo l’ho incontrato altre volte e sono diventato per lui una specie di figlioccio, anche se ha continuato a darmi del lei come faceva con tutti».
Nel Pantheon di Pippo Baudo la figura di Ettore Bernabei occupa un posto importante. E non solo perché coincide con l’inizio della sua carriera. Era la Rai della Prima Repubblica, quella con sede in via del Babuino. Il Cavallo di viale Mazzini e il centro di produzione di Saxa Rubra sarebbero arrivati dopo e sempre sotto l’impulso dell’ex direttore generale chiamato dall’allora segretario delle Democrazia Cristiana Amintore Fanfani. «Cadde quasi per caso tra le braccia dalle tv e se ne innamorò», traccia un ritratto affettuoso il conduttore di Militello che negli anni di Bernabei diventò tutti il Pippo nazionale. «Di quella televisione straordinaria mi colpisce ancora oggi la schiera dei suoi collaboratori Leone Piccioni, Emanuele Milano, Fabiano Fabiani, Giovanni Salvi, Angelo Romanò, gente di prima categoria, grandi intellettuali, la chiave di tanti successi. E ora lascia una grande eredità , a partire dalla fiction, una eredità ricca di cui faranno sicuramente tesoro i suoi figli Luca e Matilde».
PADRE FONDATORE
Al netto della retorica che accompagna i personaggi che lasciano una impronta così profonda nella storia di un’azienda, Bernabei appare come il padre fondatore. Il padre di una Rai in un certo senso eroicache aveva la mission di trasformarsi in servizio pubblico e riappacificare il Paese. «Nel campo del varietà non ho mai sentito la sua presenza censoria - attesta Baudo - E dire che ho fatto questo mestiere per tanti anni. Mai una telefonata, neanche per dirmi la prego faccia questo oppure non lo faccia». Renzo Arbore approdò in Rai all’incirca negli stessi anni di Baudo. Però alla Radio e per un pubblico diverso.
IL CODICE
«Il primo programma che feci si chiamava Settimana Santa ad Harlem - ricorda lo showman pugliese - Il Venerdi Santo la radio mandava in onda solo musiva classica. Osai mettere Louis Armstrong ed Ella Fitzgerald, il gospel e gli spiritual. La coincidenza volle che il presidente della Camera dei deputati dell’epoca Brunetto Bucciarelli Ducci chiamasse Bernabei per chiedergli la registrazione. Le mie quotazioni subirono un’impennata improvvisa». Buon gusto, contenuti, arricchire la cultura degli italiani e dopo tante divisioni unificarli. Era il codice Bernabei. «Senza quella tv io che sono nato a Foggia non avrei mai conosciuto uno di Modena e uno di Modena non avrebbe conosciuto me. Non ci saremmo conosciuti, noi staremmo ancora parlando in dialetto, u fuggiane». 
Grandissimi autori, a cominciare da Antonello Falqui ed Enzo Trapani. «Si cercava gente che inventasse la tv italiana, cosa che adesso manca perché facciamo una televisione globale che di italiano non ha nulla o quasi». 
Bernabei veniva dalla carta stampata ma era un grande comunicatore. «Ci sono direttori che amministrano, attraverso l’auditel o quello che passava il convento o i produttori e poi ci sono gli inventori di televisione. Ecco lui è stato questo, l’inventore del servizio pubblico, ha inventato il codice al quale attenersi. «Sotto la sua direzione ho fatto molti programmi audaci. come ad esempio Speciale per voi nel 1969, dove i ragazzi potevano chiedere di parlare liberamente con i loro idoli. Erano ragazzi del Movimento quelli che sfilavano a Milano, personaggi spesso borderline: nessuno mi chiese di farli tacere»,