la Repubblica, 12 agosto 2016
Arianna Huffington lascia l’Huffington Post. E ora?
Tagliente come il suo indelebile accento greco, dispotica e superba come una dea dell’Olimpo, Arianna Huffington, la regina del giornalismo digitale che aveva imposto il proprio nome all’informazione, abbandona la propria creatura al suo fato e cerca altri traguardi.
Tanto odiata quanto adulata, tanto temuta quanto adorata, Arianna, nata Ariadne Anna Stasinopoúlou in Grecia sessantasei anni or sono, ha deciso che la ricchezza, il potere, la celebrità e il giornalismo instant frullato in Internet 24 ore al giorno per 7 giorni che l’hanno resa un “marchio” famoso nei quattordici Paesi, dove il suo “Huffington Post” è prodotto non fanno la felicità. «Soldi e potere sono soltanto due gambe dello sgabello», ha spiegato ai suoi lettori. «Per restare in piedi, lo sgabello della vita ha bisogno di serenità».
Naturalmente, una ricchezza personale valutata a oltre 100 milioni di dollari americani aiuta a staccarsi dal tritacarne dell’informazione online e dei quasi duemila titoli che ogni giorno le varie edizioni del suo “Post” diffondono, sei volte più di quanti altri blog nuovi o classici come “Time” o “BuzzFeed” sfornino. Ma l’abbandono dell’Huffington da parte della Huffington è più una crisi professionale che un’epifania personale. La sua creatura non era più sua, dopo la vendita per 315 milioni ad Aol cinque anni or sono e poi l’assorbimento nel ciclope onnivoro della telefonia e delle telecomunicazioni, Verizon, con Arianna emarginata.
E quello che Arianna non controlla, ad Arianna non piace. Nella sua odissea di donna partita dalla Grecia per raggiungere Oxford, dove divenne la prima studentessa straniera eletta alla guida della società oxoniense per i dibattiti, alla definitiva emigrazione in America per sposare un petroliere milionario repubblicano, Michael Huffington, Arianna ha sempre controllato la propria fortuna con una capacità di lavoro pari soltanto alla sua ambizione e spregiudicatezza. I detrattori, numerosi quando gli adulatori, l’avevano soprannominata la “Edmund Hillary dell’arrampicata sociale”, capace di raggiungere l’Everest del successo, senza scrupoli. Ma anche di cadere, come le accadde quando crollò a terra nel suo ufficio, esausta dopo 48 ore di viaggio, e le abituali quattro ore di sonno per notte, picchiando il naso. «Fu allora che capii che se il prezzo del successo era ritrovarsi per terra con la faccia in una pozza di sangue, non intendevo più pagarlo».
Ma prima che fisico, il suo viaggio politico l’aveva portata su rotte diverse, da posizioni rigidamente conservatrici quando era sposata con Michael, deputato repubblicano e poi vice ministro della Difesa con Bush il Vecchio, e lei pubblicava, fra 13 libri, chilometri di articoli e ore di partecipazione a tutti i talk show televisivi, opinioni fieramente reazionarie. E radicalmente anti femministe, espresse in una famosa e poi rimpianta frase di un suo saggio: «Il femminismo di oggi è una ideologia buona solo per lesbiche». Frase particolarmente deprecabile, alla luce della pubblica ammissione del marito, e padre delle sue due figlie, che annunciò di essere bisessuale e divenne un attivista per i diritti Lgbt. Una rivelazione che, disse lui, Arianna «accettò con grande comprensione», ma non troppo. Divorziarono un anno dopo.
Oggi supporter di Hillary Clinton, Arianna si dedicherà al suo nuovo viaggio, un’impresa chiamata “Thrive, Salute e Benessere”, che corrisponde alla Arianna New Age emersa dall’abbandono del Post e dall’atmosfera nevrotica della redazione centrale, dove l’avvicendamento di redattori distrutti dalla fatica di produrre a getto continuo porta a frequenti defezioni in massa. La “Squadra A”, dove “A” sta per Arianna, dei suoi collaboratori più stretti ha un’attesa di vita in quell’incarico di dodici mesi.
Nessuna altra donna nel “news business” internazionale può dire di avere creato dal nulla un nuovo modo di fare informazione e di raccogliere pubblicità diventando il primo McDonald’s del giornalismo fast food in Rete, con franchising in tutto il mondo. Le grandi dame dell’editoria americana avevano ereditato e sviluppato testate già esistenti, come Kay Graham, vedova del proprietario del Washington Post, o diretto pubblicazioni affermate, come Tina Brown, a Vanity Fair e al New Yorker o la “diabolica” vestita Prada, Anne Wintour a Vogue. Ma nessuna era stata il brand di se stessa, alla maniera di Donald Trump. Sarà questa, della serenità e del benessere interiore, l’approdo finale per la inarrestabile navigatrice dei nuovi cyberoceani? Lei lo promette, ma conoscendo Arianna l’irrequieta, si ha il sospetto che la sua Itaca sia ancora lontana.