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 2016  agosto 12 Venerdì calendario

Perché l’intervista della Rai a Erdogan non è stata ripresa dai media mondiali

I vertici Rai sono rimasti pubblicamente stupefatti quando si sono accorti che l’intervista esclusiva concessa dal premier turco Erdogan (e che, per il momento in cui era stata data, assumeva un valore importantissimo a livello internazionale) era stata trascurata da tutti i media che contano nel mondo. Ma non si sono chiesti (o, se se lo sono chiesti, non hanno fatto sapere la loro risposta) perché questo è successo. La risposta che non è stata data è molto semplice. L’intervista di Erdogan alla Rai non è stata ripresa dai media che contano nel mondo, per il semplice fatto che questi ultimi non ritengono che la Rai conti nel mondo dell’informazione.
E questa loro conclusione non è dovuta alla pregiudiziale e tradizionale sottovalutazione nei confronti dell’Italia (e quindi anche della Rai) ma al semplice fatto che la Rai si esprime solo in italiano, una lingua a noi cara, ma che non è spendibile nel mondo. Umberto Eco, sfotticchiando il provincialismo italiano, disse una volta: «Sfortunato quel bravissimo poeta bulgaro, che, scrivendo in una lingua ai più sconosciuta, finì per essere letto da nessuno fuori dal suo miserabile paese».
L’Italia, questo è il punto, è l’unico paese del mondo minimamente sviluppato che non abbia un canale informativo e culturale in continuo (all news) fatto solo in inglese e diffuso in tutto il mondo. C’è l’hanno tutti. Persino la Francia, un paese a cui viene il vomito alla sola idea di esprimersi solo in inglese in un canale tv pubblico (dando così spazio alla lingua nemica che, dovunque e inesorabilmente, le sta tagliando l’erba sotto i piedi). Ma la Francia non poteva fare altrimenti. L’alternativa, per la Francia (che, non dimentichiamo, possiede, al contrario dell’Italia, una lingua tutt’ora internazionale, specie in Africa), era scomparire dal mondo che conta, diventando un paese muto, che non interloquisce in tempo reale con tutto il globo. Ipotesi, questa, che, pur essendo stata mantenuta da Parigi, per molto tempo, in nome della ormai patetica francofonia, è arrivata al capolinea già da diversi anni, scontrandosi contro una realtà dei fatti sempre più ineludibile e dando quindi vita al canale in inglese, sia pure turandosi il naso.
Ha un canale 24 ore su 24 in inglese anche un piccolo (ma non provinciale) paese come Israele. Un canale gioiello. Che non a caso seguo ogni giorno (ed è molto facile farlo perché Sky diffonde, questo e molti altri canali di questo tipo, nel suo bouquet ordinario, rendendoli quindi disponibili a tutti, anche a coloro che non dispongono di grandi antenne come succedeva fino a poco tempo fa). Seguo costantemente il canale all news di Tel Aviv, dicevo, non perché è un canale israeliano che si esprime in inglese (come temo faremmo noi italiani, ingolfandolo di dichiarazioni di nostri politici, anche se tradotte; mentre i loro si esprimono in un inglese perfetto, non peracottaro) ma perché è un’emittente giovane, colta, svelta e spregiudicata, senza radici locali, che guarda il mondo intero (e non solo il Medio oriente) con degli occhi specifici che non sono quelli di Netanyahu, ma nemmeno quelli, egemonici, dei grandi conglomerati anglo-americani.
Infatti il paradosso di questi canali in inglese è che, pur utilizzando la lingua del conglomerato informativo più forte nel mondo, non ne sono succubi (come temono alcuni buontemponi nostrani, in ritardo sui tempi) ma finiscono invece per scalfirlo perché spesso rappresentano una contronarrazione dei fatti rispetto a quella angloamericana che è forte per motivi interni (dispone di pubblici nazionali numerosi e ad altissimo potere di acquisto) ma anche perché la loro narrazione dei fatti e delle interpretazioni è immediatamente comprensibile, essendo espressa in inglese, da tutta la classe dirigente del mondo intero.
Fra i molti altri canali in inglese segnalo due dei più stimolanti. Sono quelli della Corea del Sud e del Giappone. L’attenzione di questi due canali nei confronti dell’Italia è rilevante. Sul canale sudcoreano, ad esempio, ho avuto recentemente l’occasione di vedere persino uno straordinario documentario su Alberobello di un’ora, che deve aver richiesto almeno due settimane di lavoro nelle sole riprese da parte di un’équipe folta e straordinaria che non ha lesinato i mezzi per far conoscere questa località al mondo, con risultati che la Rai non ha mai prodotto a questo livello su temi di questo tipo. Inoltre il canale in inglese di Seul è fortissimo anche nella tecnologia e nell’economia. Il canale in inglese del Giappone invece è ineludibile perché informa, non solo sul Giappone, ma su tutto l’Estremo oriente con un’accuratezza encomiabile e un punto di vista che non è lo stesso delle multinazionali anglo-sassoni dell’informazione.
Anche al Jazeera, nata solo come emittente in arabo, se ha voluto far conoscere le sue informazioni a tutto il resto del mondo, ha dovuto ben presto decidersi di fare un canale solo in inglese. Inoltre, al netto dell’inevitabile intossicazione propagandistico-politica, anche il canale russo diffuso in inglese è pieno di informazioni e di video alternativi, una vera miniera su un paese immenso che va dal confine europeo alla costa pacifica (Vladivostok) e che ha un sacco di cose da raccontare al resto del mondo. E lo fa con una tecnicalità televisiva di primo piano. E non può che essere che così perché, se facesse delle trasmissioni in inglese preistoriche come tecnicalità e con le pezze sul sedere come mezzi utilizzati, diffonderebbe un’idea precaria di un paese che invece vuole mostrarsi al resto del mondo come un paese moderno e competitivo. Non a caso fra i suoi giornalisti ci sono anche molti grandi anchorman strappati a peso d’oro alle grandi reti televisive statunitensi, gente che, in Italia, sarebbe, per dare l’idea del loro valore professionale e della loro presa sul pubblico, a livello di Enrico Mentana.
Visto che di questa effervescente realtà internazionale (disponibile al semplice click di qualsiasi abbonato italiano a Sky) i media italiani non ne hanno mai parlato (chapeau, colleghi!), alla Rai hanno sinora fatto finta che essa non esistesse. I dirigenti dell’informazione Rai quindi si sono sinora comportati come i lattanti che, nascondendo la testa dietro una sedia, ma lasciando bene in evidenza il loro sederone col pannolino incorporato, ritengono di essersi resi invisibili.
L’informazione Rai (che possiede grandi mezzi ma che ha sinora espresso flebili risultati) aveva bisogno di un Carlo Verdelli come responsabile dell’informazione. Ma ce l’aveva bisogno vent’anni fa. Non adesso, quando la situazione è incancrenita come vedremo in una prossima occasione analizzando la deplorevole e sintomatica copertura da parte dei Tg Rai dell’attentato di Nizza. Verdelli è l’uomo che ci voleva perché è uno dei migliori direttori italiani. Non solo perché è capace ma anche perché ha la schiena diritta. Nel suo sterminato curriculum ha espresso, accanto a tanti exploit, anche un miracolo editoriale come l’edizione italiana di Vanity Fair che, all’opposto di tutti i canoni del marketing (che dicono che, oggi, per avere successo, bisogna inseguire nicchie di consumo sempre più ristrette), ha realizzato una rivista che si rivolge invece sia a un pubblico maschile che femminile e che, contro tutte le altre previsioni, ha avuto (e sta avendo tutt’ora) un grande successo, in assoluta controtendenza rispetto a tutti gli altri settimanali.
Verdelli è l’unica àncora possibile per l’ineludibile modernizzazione dell’informazione Rai. Ma la contraerea di Saxa Rubra, con i suoi vari collegamenti politici, sta già posizionandosi. La nomenklatura Rai ha contro, è vero, la possibilità, se si continua ad andare avanti così, che la Rai finisca fra cinque anni com’è finita l’Alitalia. Ma fra cinque anni (questi sono i beceri ragionamenti dei vertici Rai assurdamente inamovibili, almeno come busta paga) questa nomenklatura Rai sarà vicina alla pensione. E allora si vedrà. Intanto, adesso, dicono questi capataz, succhiamoci il gettito del canone che, tra l’altro, è stato anche considerevolmente aumentato. Continuando a fare, con calma, quello che abbiamo sempre fatto. Senza ricordare che ciò era già vecchio trent’anni fa.