la Repubblica, 12 agosto 2016
Il viaggio a puntate di Arbasino tra Venezia e Berlino. Prima tappa
La Komische Oper di Berlino Est arrivava a Venezia e a Bologna per celebrare alla Fenice e al Comunale gli stravaganti trionfi del Singspiel. Annettendo al canone della Zauberflöte e della Fledermaus monumenti tradotti: ma che dissolutezza ascoltare in tedesco sintagmi ormai figés come «Monsieur-Spallanzani-n’aime- pas-la-musique» o «Miroir-où-se-prend-l’alouette» dell’Opéra Comique, come in queste “Contes d’Hoffmann”. O – come The Beggar’s Opera – quell’operettaccia inglese, anti-italiana e mock-pastoral, che è il geniale capostipite sia della tradizione vittoriana di Gilbert & Sullivan sia del filone espressionistico di Brecht & Weill. Attualmente Walter Felsenstein è il maggior regista operistico al mondo. Bastano queste strepitose “Hoffmanns Erzählungen” a qualificarlo maestro insuperabile di rigor critico e d’invenzione fantastica. Un suo eventuale monumento come quello a Leonardo da Vinci in piazza Scala a
Milano, potrebbe reclamare agli angoli del basamento le quattro statue di Brecht e Visconti e Orson Welles e Gianfranco Contini.
Ma l’abbondanza in scena di suppellettili squisite mostra il contrasto con la mancanza delle prime necessità fra i negozi statali squallidissimi.
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La fosca offelleria nera e oro di un arcoscenico guglielmino-partenonico luccica esageratamente sgargiante, fra gli stucchi apollinei e acquamarini della sala serenissima, alla Fenice. Colonne e frontone come di ghisa smaltata a fuoco, di papier-mâché leccato con chiara d’uovo, con sopra appiccicate metope di meringa e palmette di cioccolata. Sipariaccio sbrindelento da Schauspielhaus provinciale, di quelli con l’apertura in mezzo a foggia di porticina. Crepitano le lampade ad arco, lampeggiano da tutte le direzioni. E decine di macchinisti manovrano incroci di raggi e brutali faretti “a seguire”, gelatine di una colorazione improvvisa, mascherine di un’estinzione millimetrata. Un procedimento da film poliziesco applicato agli industriosi congegni di una madornale macchina di precisione. Centotrentesima replica dalla “prima” berlinese… La sera dopo si poteva scoprire, a una splendida recita del sublime Capriccio, che Richard Strauss non era affatto un sorpassato “pompier” wagneriano sotto sotto nazisteggiante e comunque “da birreria”, secondo luoghi comuni balordi allora diffusi fra noi. Anzi, non solo ai tempi della collaborazione con Hofmannsthal, ma anche più tardi da vecchio e da solo, si trattava di un “pivot” supremo della modernità novecentesca. Come Stravinskij, e Schönberg. E Shostakovich: che invece passava allora fra noi per un tamburino dello stalinismo patriottico, perché non erano ancora affiorate le vertiginose tragedie delle avanguardie russe, annientate e torturate fra la repressione e i compromessi.
Anche la grande pittura tedesca del Novecento bisognava scoprirsela da sé nei viaggi attraverso la Germania, perché le nostre scuole ci avevano parlato molto dei cubisti e dei “fauves”, anche di Utrillo e Rouault o Dufy. Però Nolde e Beckmann e Kirchner e Marc e Macke, e poi Dix e Schad, negli anni Cinquanta erano ancora “sorprese”, in mancanza di indicazioni e riproduzioni in patria. Qui incominciai a vedere del Mozart molto limpido e assai vivo, in edizione tipo Lezioni di Stile.
Nessuno tende a strafare. Il canto e i gesti incantevolmente composti in un giustissimo equilibrio, costante, fra le voci e l’orchestra; la misura della grazia non eccede il necessario; e alla fine niente risulta sacrificato, neanche i “pianissimo” di Cherubini, che si sentono perfettamente. Scene e costumi nello spirito di quel pacato barocco internazionale che diffondeva nelle Corti periferiche, dalla Danimarca al Piemonte, l’Esprit de Versailles: ma senza eccessi di grandiosità o sofisticazione. Nelle Nozze di Figaro, sale tenute su una dimensione ragionevolmente umana, sale dove sembra impossibile vivere. E nel Così fan tutte, elementi mobili e “trasparenti” disposti dentro una cornice nera e dorata che simula una scena dentro la scena: la mia Dorabella, la mia Fiordiligi, Elisabeth Grümmer, Sieglinde Wagner, Dietrich Fischer- Dieskau, Joseph Greindl, Ernst Haefliger, Rita Streich…
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Appare la Musa serapionica col compito più narcisistico immaginabile in un melodramma che ha come oggetto unicamente se stesso: storicizzare la circostanza non di fatti reali, né del racconto di tali fatti. E neanche dell’origine probabile di certi sogni, bensì della narrazione d’una determinata serie di racconti che sono – appunto – sogni. «La qual cosa», direbbe Sanguineti, «esige che essa non si rappresenti già nella condizione patetica del creatore che vagheggia l’opera ventura, ma nell’atto giullaresco del novellatore che dormicchia mentre le pecore passano».
«Rifiuta di presentare dei personaggi come se fossero veri», aggiungerebbe Eco, «e li presenta invece in quanto falsi, nel senso in cui siamo falsi noi quando parliamo…». In vista d’una bella fabella, l’Hoffmann di Barbier & Carré non agisce diversamente dall’Apuleio citato da Sanguineti («Erant in quadam civitate rex et regina…»): «Je commence! Silence! Le nom de la première était Olympia!» Ma l’Evento Melodrammatico, per Felsenstein, «diventa credibile soltanto quando la musica non descrive un fatto già accaduto in precedenza, ma quando essa sembri sorgere, come la parola, dalla situazione reale o immaginaria di rapporto con un proprio partner e quando il canto non è un’espressione normale, ma un’espressione assolutamente “autre” del personaggio drammatico e quando musica e canto sono tali che l’ascoltatore li intenda soltanto come azione».
Acconciato come Balzac giovane (ma anche un po’ Schubert e Cavour), il pingue tenore protagonista canta come un Faust che debba tanto a Bizet. Quell’assoluta delizia che è la partitura era stata arrangiata dall’esecutore testamentario Guiraud con una sapienza all’altezza – come finezza – del maggior dono del Maestro della Belle Hélène: un’inarrivabile spiritosità nell’orchestrazione così intelligente e felice anche nelle più futili leggiadrie. In Les bavards e in Ba- ta- clan, rappresentate all’Accademia Filarmonica Romana, si trovano delle sapientissime parodie dall’interno del Coro del Nabucco: tessendo miracoli di solenni sonorità risorgimentali introno alle deliberate melensaggini di constatazioni tipo «Ah quelle chaleur accablante…».
E il clamoroso Concertato della Coniugazione svolge una somma d’agnizioni reciproche fra parigini travestiti da cinesi sotto forma di un «Je suis français, tu es français, il est français…» che spinge al parossismo la meravigliosa convenzione dei finali d’atto rossiniani-zelmireschi.
Così, per Felsenstein, «a teatro il pubblico vuole partecipare a un’azione svolta dall’uomo e operante sull’uomo, non si aspetta informazioni su fatti concreti, quanto un’azione scenica a cui si senta spinto a partecipare e che proprio in questa partecipazione del pubblico raggiunge un più alto livello di realtà. In tale rapporto fra azione scenica e reazione del pubblico sta la peculiarità dell’emozione teatrale.
Alla sua verità poetica e al vero spirito comunitario che essa suscita nessuno sa resistere. Comprensibilità, credibilità e assoluta verità nella rappresentazione sono condizioni indispensabili affinché si produca un’autentica emozione teatrale». Ora, l’«ironia tecnica» di Felsenstein sembra riconnettersi impeccabilmente sia al «fondarsi sopra le forme assai prima che sui contenuti» di Sanguineti, sia alla “maniera” della «decisione rivoluzionaria di legare al marxismo, in teatro, il posto di un riflettore o l’usura di un abito» di Brecht secondo Barthes. Dopo tutto un lavoro di sfrondamento e trasposizione e ricomposizione, operato da Felsenstein stesso sui lacerti offenbachiani che formano le «ricostruzioni ideali» correnti di quest’opera- capolavoro, dovrebbe sorprendere, forse, prima di tutto, l’adozione figurativa del partito della corposità. Non già quel “normale” flou di labile tulle o garza trasparente, per Far Fronte all’Onirico, in un gemellaggio impressionistico fra meta-regìa e passamaneria; ma («a rappresentare, ahimè, quello stile del reale, che, per perfezione del paradosso, fa il palombaro nel mare dei sogni», Sanguineti) una scenografia tutta-costruita, e solida – pavimenti lucidi, archi spessi, vere seggiole da birreria, e scale con sopra cinquanta persone – di un «massiccio teutonico» avviato a una Deformazione del Concreto che riesce naturalmente più allucinatoria e più oniricamente “magica” dei deliri alla Caligari-Mabuse.
La tecnica “ironica” di Felsenstein predilige la Citazione del Costruito: non tutto un muro, ma un pezzo di muro; non un’intera cornice, ma un frammento. Quel pezzo o quel frammento, però, solidamente costruiti come l’oggetto concreto che attraversa le non-descrizioni non-naturalistiche inalzate da Gadda o da Musil per Far Fronte Alla Realtà in prima istanza con la Mimesi Ironica. E poco più in là con Strutture Proprie. Immaginiamo una boiserie Luigi XV su cui abbiano sghignazzato i Fritz Lang dei bei tempi, in un palazzo Crespel di Monaco bombardato come la Residenz e rimasto squarciato alla neve di tanti inverni. Irregolarmente ritagliato da vicende bavaresi esteriori e dolorose; cosparso di ritratti screpolati dal sole, di violini dove sono cresciuti i funghi, di commodes fra cui è successo l’inferno. E in un angolo una presenza sinistra, forse un giudice egizio o un nume massonico, ma si tratta d’una testa di scavo posata su un’étagère di profilo, e di dietro ha una tenda che sembrava un mantello, ai piedi un violoncello scambiabile per una pancia.
1. Continua.
©Alberto Arbasino