Corriere della Sera, 12 agosto 2016
Aleppo è la nuova Sarajevo?
Nessuno, civili o ribelli armati, si fida dei corridoi «protetti» offerti dal clan degli Assad e dai suoi alleati russi: sono strade senza uscita che portano nelle aree dominate dal regime. Così la parte orientale di Aleppo resta sotto assedio e le organizzazioni umanitarie non riescono a far passare i convogli. I primi aiuti da un mese (frutta e verdura, un po’ di pane) sono arrivati dai contadini delle campagne nella provincia di Idlib, controllata dagli insorti.
La battaglia per la città sulla Via della seta va avanti dal luglio del 2012. Che questa estate 300 mila persone rischiassero di rimanere accerchiate era prevedibile, il regime aveva spostato i rinforzi: i miliziani sciiti dall’Iraq e dall’Iran, i libanesi dell’Hezbollah. Prevedibile e previsto: a fine maggio Stephen O’Brien, coordinatore degli interventi d’emergenza delle Nazioni Unite, incontra ad Antiochia i rappresentanti dei gruppi internazionali che dal confine con la Turchia cercano di raggiungere le aree isolate. Insieme vogliono pianificare come rispondere alla catastrofe.
Un mese dopo le 75 organizzazioni non governative che hanno partecipato scrivono a O’Brien per criticare quello che considerano il «trattamento privilegiato» garantito dalle Nazioni Unite al governo di Damasco. È un atto d’accusa. Ricordano che lo Humanitarian Response Plan pubblicato agli inizi di quest’anno – per raccogliere i fondi dai Paesi donatori – è stato rimaneggiato dopo le pressioni del regime: nelle 64 pagine (che pure elencano numeri da apocalisse: 13,6 milioni di siriani necessitano di aiuto, 50 famiglie all’ora devono lasciare le loro case) è stata omessa le parola «assedio». «Le Nazioni Unite – continua la lettera – sembrano aver accettato la visione del governo fino al punto da considerare “umanitarie” solo le organizzazioni che Damasco designa come tali. Questo significa che noi e i nostri operatori non siamo protetti dal diritto internazionale. È inaccettabile». Essere considerati «illegali» dalle truppe di Assad – queste Ong si muovono nelle aree dell’opposizione – vuol dire diventare un bersaglio dei bombardamenti.
Sono i ricatti politici attuati da Damasco che Ben Parker, fino al febbraio del 2013 alla guida della squadra di soccorso dell’Onu in Siria, ha denunciato in un articolo per la rivista Humanitarian Exchange : «La posizione ufficiale è che le organizzazioni sono libere di andare ovunque. In realtà cosa, dove e a chi distribuire l’assistenza è oggetto di trattativa e qualche volta viene semplicemente imposto dal regime».
I gruppi di volontari chiedono che il dossier per il 2017 – in preparazione – non venga «discusso» con il governo dai funzionari dell’Office for the Coordination of Humanitarian Affairs: «Negoziare la strategia di aiuti con l’entità che da sola commette la maggior parte delle violenze contro i civili e li affama per raggiungere i suoi obiettivi militari rende una buffonata l’intero processo di revisione». La diffidenza verso l’OCHA delle Nazioni Unite – commenta sempre Ben Parker sul sito Irin News, che ha pubblicato un estratto della lettera – è rincarata dall’aver scoperto lo stanziamento di 751.129 dollari autorizzato a gennaio per l’ente benefico presieduto da Asma Assad, la moglie del presidente Bashar.
Neil Durkin di Amnesty International si chiede sull’ Huffington Post se Aleppo e la Siria saranno ricordate come un altro fallimento dell’Onu dopo il Ruanda o Srebrenica: «L’orrendo massacro nella cittadina bosniaca si distingue per la portata e la rapidità. Ottomila musulmani eliminati in pochi vergognosi giorni nella metà di luglio del 1995. In questo senso Aleppo non è la nuova Srebrenica. È la vecchia Aleppo. Ed è già abbastanza terribile».
Anche durante il conflitto nell’ex Jugoslavia la fame e la carestia – indotte dagli uomini, non create dai disastri della natura – sono state usate come arma di guerra. Il regime di Damasco non ha mai dato il via libera al ponte aereo proposto dall’Onu per rifornire le aree accerchiate dal suo esercito (la maggior parte del milione di siriani sotto assedio). Voli come quelli dell’Aereonautica militare italiana, che nei quattro anni del blocco imposto dai serbi trasportarono a Sarajevo 34.600 tonnellate di aiuti.