La Stampa, 12 agosto 2016
I novant’anni in tuta di Fidel Castro
È un vecchio uomo ormai fragile, Fidel Castro che domani compirà 90 anni. Una tuta scarna da pensionato ha sostituito la balda uniforme militare, ha la barba bianca, le gambe deboli, la voce flebile, i compañeros lo aiutano a stare in piedi. Però, la Revolución è ancora lui. Le pagine ormai gialle dell’Autunno del patriarca gli si sfogliano addosso, e lo accompagnano verso quella che nell’ultimo suo discorso al congresso del Pcc, ad aprile, lui ha chiamato «la strada di tutti»: mentre lo diceva stancamente dalla poltrona dove l’avevano seduto, di fronte a lui i 1300 delegati gli gridavano commossi, le braccia in aria a fermare il tempo crudele, che no, che lui no, che lui è sempre Fidel e sempre lo sarà.Sono le liturgie del potere, dove la lacrima che scende stanca paga un tributo alle illusioni; perché, il tempo che è crudele non si ferma. E se è vero che lui è ancora la Revolución, è anche vero che la rivoluzione non è più lui. Il mito lo accompagna imperioso verso «la strada di tutti», ma quello che lui si lascia alle spalle è una realtà amara, dove le contraddizioni – pur vere, i forti progressi sociali e però anche le limitazioni drammatiche della libertà – scontano un bilancio che rattoppa le deficienze e i fallimenti con la retorica dell’orgoglio nazionale.
Le tinte sbiadite
I murales a colori raccontano tuttora il dovere della lotta contro «el imperialismo yanqui», ma le tinte sono sbiadite dal vento che sale indifferente dal Malecón, e i taxi (privati!) chiedono 40 dollari ai turisti «yanqui» che sbarcano nell’isola del comunismo tropicale con la curiosità ingenua di quell’«imperialismo» che sta dall’altra parte del corto mare della Florida.
Con 40 dollari, molti a Cuba ci campano quasi un mese. Ma sono quelli dell’isola numero 2, l’isola dei fortunati che acchiappano i rivoli felici del turismo e ci costruiscono il futuro. Però c’è anche l’isola numero 1, quella delle gente comune, che deve campare con i pochi pesos che tiene in tasca e con la «libreta» che stenta ad assicurargli la sopravvivenza alimentare. Fidel, questa contraddizione non la vede, perché lui è la Revolución e la Revolución va avanti ad autocelebrarsi.
Ma un tempo è finito, García Márquez è morto, ed è morto anche il colonnello Aureliano Buendía che di rivoluzioni ne aveva fatte 32 e però le aveva tutte fallite. In 90 anni, e in 50 anni di potere, anche Fidel Castro ha dovuto registrare molti fallimenti – già dai suoi due assalti armati del ’53 e del ’56, con i suoi compagni morti, la prigione, la fuga – ha dovuto subire mutamenti di rotta e abbandoni; ma sempre ha saputo uscirne indenne, forte di un orgoglio che gli faceva ignorare il conto amaro della realtà, come nel ’62, nella crisi dei missili, quando Kennedy e Kruscev siglarono un accordo scavalcandolo senza nemmeno avvisarlo, o quando nel ’90 «el período especial» lo privò dei sussidi di Mosca, e lo costrinse ad accettare per l’economia allo sbando aperture e concessioni che negavano il passato.
Socialismo e patria
Il successo della sua strategia politica dopo la fuga di Batista e la conquista del potere è strettamente legato alla sua capacità di farsi erede delle rivendicazioni nazionaliste di José Martí e Carlos Emanuel De Céspedes: la sua Revolución si offriva come il recupero delle vecchie lotte contro il colonialismo spagnolo, integrava l’orgoglio vittorioso di una patria comune – di tutti, socialismo o muerte – con la ribellione allo sfruttamento umiliante importato dal nuovo colonialismo monroeiano, di Cosa nostra, delle società e delle imprese yankee, del gioco d’azzardo, delle puttane da comprare facili.
Questa identità integrata (mito rivoluzionario e nazionalismo) ha retto la storia di Castro e dell’isola anche quando la rivoluzione-progetto si era ormai drammaticamente modificata in rivoluzione-regime. E il «nosotros» di tutti era poi diventato la spaccatura tra il «nosotros», della gente comune, e il «los otros», gli altri del potere ufficiale e della nomenklatura. L’assorbimento di questa mutazione è stato comunque possibile grazie agli investimenti sociali della Revolución, che – anche se ha creato una nomenklatura – ha tuttavia favorito la creazione di un Paese dove l’istruzione gratuita fino all’università e un efficiente sistema di sanità pubblica sono stati gli investimenti prioritari dei guerriglieri barbuti fattisi uomini di Stato. E i cubani, questo lo sanno bene anche quando raccontano ai turisti del loro desiderio di capitalismo.
Sono dieci anni, ormai, che Fidel si è messo un po’ da parte, la tuta di felpa ha sostituito l’uniforme verdeoliva. La rivoluzione-regime ha guardato alla Cina, e Raúl Castro ha scelto di non ripittare il colore dei murales. Un vecchio rivoluzionario si avvia sulla strada di tutti, e porta via con sé il tempo del mito, quello che García Márquez diceva «il tempo interminabile dell’eternità». Un giorno lui, il Comandante, aveva preteso che «la Storia mi giudicherà»; lo ha già giudicato.