Il Sole 24 Ore, 11 agosto 2016
Perché Trump è l’alibi perfetto per l’economia
Donald Trump è l’alibi perfetto. Una personalità che ha un rapporto grottesco con la realtà dei fatti e che è riuscita ad aprirsi il campo nell’opinione pubblica americana usando la propria carica narcisistica come un lanciafiamme. Con il suo linguaggio incendiario Trump si è appropriato di alcune gigantesche inquietudini a cui la politica di Washington non ha voluto o saputo rispondere: la promessa di progresso economico non è più credibile per gran parte della società; la frustrazione della classe media sta rompendo il vecchio legame tra democrazia e benessere che non trova corrispondenza nelle nuove potenze economiche; infine in un contesto globale non democratico e multipolare è destinato a cambiare anche il ruolo degli Stati Uniti.
A tutto ciò Trump dà risposte forti, semplici e sbagliate.
A questo punto, il voto americano non è difficile da comprendere: se si riduce a un referendum su Trump, vincerà Hillary. Se invece si risolve in un referendum su Hillary, vincerà Trump. I due sfidanti sono figure che polarizzano in negativo l’elettorato come nessun candidato prima di loro. Ma lo speciale egotismo di Trump si sta ritorcendo su di lui e di recente i consensi stanno calando. I modelli degli scienziati politici di Washington gli assegnano oggi solo una probabilità su sei di diventare presidente. Se a novembre perderà, verrà espulso dal tempio, caricato di tutte le colpe e cacciato nel deserto. Scomparendo, compirà perfettamente il suo compito di alibi perfetto.
Ma i problemi politici non spariranno con lui. Lo dimostra una rudimentale analisi dei sondaggi. Da 25 anni non ci sono mai stati così tanti americani intenzionati a votare, né che ritengano che il voto influenzerà realmente il corso del paese. Eppure gli elettori ritengono che la campagna elettorale non si occupi dei temi rilevanti, sopraffatti dalle caratterizzazioni personali. In un clima di polarizzazione estrema, è normale che si crei un alto livello di rifiuto reciproco tra i sostenitori dei due partiti, ma la novità di quest’anno è che la polarizzazione si è creata non solo tra i partiti ma anche al loro interno. È questa forse la testimonianza più significativa della difficoltà della politica nel dare orientamento agli elettori. I timori sul declino del benessere individuale non trovano un inquadramento collettivo.
Ben Bernanke, l’ex presidente della Fed oggi a Brookings, ha offerto alcuni elementi che quantificano le aspettative declinanti degli americani. Bernanke ha mostrato come le previsioni della Fed sul reddito potenziale, sul livello di equilibrio della disoccupazione e sul tasso d’interesse “naturale” siano cadute sensibilmente nel giro di cinque anni, con un’accelerazione negli ultimi 12 mesi. I motivi sarebbero il basso incremento della produttività, un nuovo equilibrio tra occupazione e crescita (probabilmente dovuto a precarietà e bassi salari)nonché il fatto che l’inflazione non cresca nemmeno quando la disoccupazione è molto bassa. Bernanke non è un sostenitore dell’ipotesi che le economie occidentali siano entrate in una fase di stagnazione secolare, ma nella sua analisi si vede quella che Janet Yellen ha chiamato la “nuova normalità” di un mondo con bassa crescita e bassi tassi d’interesse. Una crescita potenziale più bassa implica un rendimento minore degli investimenti di capitale e quindi un tasso d’interesse “naturale” più basso del normale. Ciò indicherebbe che il livello attuale dei tassi non è abbastanza basso (rispetto a quello “naturale”) e spiegherebbe anche perché gli investimenti delle imprese non aumentino come si sperava. Giudicando dai rendimenti a lungo termine, i mercati si aspettano che questa condizione di bassa crescita continui molto a lungo.
Anche in Europa si ragiona sul livello attuale della crescita potenziale, benché sia un valore impossibile da stimare ex ante e difficile da identificare perfino ex post. Un’ampia deviazione del reddito attuale dal suo potenziale può indicare la necessità di politiche di stimolo dal lato della domanda, mentre un calo del reddito potenziale segnala la necessità di misure dal lato dell’offerta. Questo spiega il richiamo ad alcuni paesi (Germania) a stimolare i consumi e ad altri (Italia) a realizzare le riforme strutturali. Ma anche in Europa, come negli Stati Uniti, il timore è che la grande recessione degli anni passati – e il grado di permanente incertezza che ha creato – abbia eroso la crescita potenziale, instaurando una nuova normalità di bassa crescita e bassi rendimenti.
Le implicazioni politiche sono notevoli. In economie che non crescono molto, il tema distributivo diventa più importante e polarizzante. In un gioco a somma zero, infatti, ogni euro guadagnato in più da un cittadino corrisponde a un euro guadagnato in meno da un altro. Il dibattito politico tende così a radicalizzarsi. E anche all’interno dei singoli partiti convivono a fatica le istanze di chi punta alla crescita con quelle di chi antepone una più equa distribuzione dei redditi. Sembra una rappresentazione realistica di quello che sta succedendo nei partiti, vicino e lontano da noi.
Trump e i vari demagoghi europei sono un alibi perché catalizzano il dibattito politico sulle loro risposte sbagliate anziché sui disagi reali. Ma se gli altri partiti si accontentano di sbarrare la strada ai populisti condannano anche se stessi a inseguirne l’agenda. Tenendo nel buio i grandi problemi delle società occidentali, si lascia campo aperto a soluzioni politiche protezionistiche: si comincia a costruire i muri attorno all’economia e poi li si erige fisicamente o si finisce per gettare le bombe. In questo, va riconosciuto, che almeno la retorica di Trump è perfettamente coerente.