La Stampa, 11 agosto 2016
Referendum, a Renzi manca il Sì di Prodi
Tra un’autocritica, qualche polemica e il tentativo di consolidare o acquisire alleanze di peso (da Napolitano a Romano Prodi), Matteo Renzi è al lavoro per correggere la rotta che lo condurrà alla «madre di tutte le battaglie». Infatti, affrontata col passo lieve di una scampagnata, la strada verso il referendum costituzionale di fine novembre si è da tempo rivelata tortuosa e piena di insidie: al punto da render necessari – forse perfino con qualche ritardo – correzioni di toni e di passo.
Intendiamoci: non ci sono né abiure né retromarce: ma già il «sì, ho sbagliato anche io a personalizzare troppo il referendum», sembra rappresentare una mano tesa ai critici (soprattutto interni al Pd) che fin dalla prima ora avevano contestato l’impostazione data alla campagna dal premier-segretario.
Difficile dire se la scelta di toni più concilianti possa esser considerata definitiva, perché al cuore (ed al carattere...) non si comanda. Ma il fatto che Matteo Renzi ci provi – nonostante la gran quantità di insulti reciproci già passata sotto i ponti – è comunque una novità che la minoranza interna (e i nemici esterni) sbaglierebbero a ignorare o a sottovalutare.
Non è solo il premier, infatti, ad aver personalizzato la battaglia: anche gli avversari – e da tempo – hanno fatto del referendum una clava per abbattere il governo e il suo presidente. E se oggi alcuni sondaggi sembrano premiare il «no», non è detto che in autunno le cose stiano ancora così. Prudenza e dialogo, dunque, potrebbero giovare a tutti: e prima di tutto ad una discussione che, degenerata fino ai toni offensivi e grevi di questi giorni, appare inutile alla causa (la modifica della Costituzione) e dannosa per il sistema.
Provando a interpretare le ultimissime uscite del segretario-presidente, non si sfugge ad una sensazione: e cioè che, oltre a ricercare «consenso popolare» al «sì» al referendum (con uscite tacciate di populismo: come i 500 milioni di euro che, risparmiati con la riforma, verrebbero dirottati versi «i poveri») Renzi stia provando ad acquisire il «sì» di padri nobili del centrosinistra, così da dare maggior sostanza, peso e credibilità alla sua personalissima battaglia.
Il sostegno di Giorgio Napolitano è noto, e il premier non manca di ricordarlo: «Questa riforma ha un padre, si chiama Napolitano». Ma il «sì» che manca – e che cambierebbe molte delle posizioni in campo – è quello di Romano Prodi, padre dell’Ulivo, del Pd e icona ancora amatissima nel centrosinistra.
Il Professore – infatti – se ne sta in disparte, forse incerto o forse addirittura turbato dalla violenza dello scontro in atto. Nessuna dichiarazione ufficiale per il «sì» o per il «no», lunghi silenzi sui fatti di politica interna ed attenzione quasi esclusiva verso temi economici (la crisi delle banche) e scenari internazionali. Oggi come oggi, il suo pronunciamento – il suo «scalpo», per dir così – è il più ambito, sia dalla maggioranza renziana che dalla minoranza interna al Pd.
Quanto possa essere importante il sostegno del Padre Fondatore – che ha con Renzi, però, rapporti assai altalenanti – al premier è chiarissimo: e ha dunque cominciato un esplicito corteggiamento. Gli auguri per il compleanno inviati al Professore dal palco di una festa de l’Unità, l’attacco a Fausto Bertinotti («Uno che chiede sempre di più per poi perdere quello che ha») e l’affondo ben mirato contro Massimo D’Alema («Ha fatto più contro me e Prodi che contro Berlusconi»), sono lì a dimostrarlo.
Il «sì» di Romano Prodi – è evidente – legittimerebbe l’intera campagna referendaria di Matteo Renzi. La riforma – e non solo questa riforma – non sarebbe più la scommessa demagogica di un premier troppo giovane, troppo spiccio e troppo arrogante, ma si trasformerebbe in un inveramento del programma e della natura del Partito democratico. Perché è vero che l’ipotesi di riforma che verrà sottoposta ai cittadini ha già un padre autorevolissimo: Napolitano. Ma è certo che, se ne avesse due, sarebbe notevolmente meglio.