la Repubblica, 11 agosto 2016
L’argento di Marco Innocenti e quelle lacrime di gioia per una medaglia arrivata dopo vent’anni
L’oscura carriera da travet olimpico di Marco Innocenti, cominciata a Sidney con un ottavo posto, proseguita ad Atene con un diciassettesimo, precipitata a Pechino dove nemmeno era andato, e poi quasi finita a Londra, dove, dodici anni dopo, faceva la riserva, si è accesa, all’improvviso, ieri pomeriggio, nello scintillio abbagliante di una medaglia d’argento, ottenuta dopo un giorno trincea, nella specialità del double trap, la doppia fossa olimpica (due piattelli sparati contemporaneamente da prendere con soli due colpi).
Adesso che tutto è finito, che gli spari sono cessati e nel poligono di Rio si sente solo il rumore di questa pioggia quasi britannica, Marco cerca di mettere ordine nei fatti tumultuosi di una giornata passata a sparare tra scrosci d’acqua e colpi di vento. Ma deve per forza cominciare dall’inizio: «Sono cresciuto a pane e piattelli», dice, e a giudicare dalla biografia c’è il rischio che l’immagine non sia tanto figurata. La sua famiglia possiede una delle armerie più prestigiose d’Italia, una specie di tempio per gli amanti del genere, l’Armeria Innocenti di Montemurlo. «Vengo da una dinastia di tiratori, sono la terza generazione – scherza – Vendiamo fucili, munizioni, abbigliamento. Mia sorella e mia cugina, Nadia e Elena, però erano nella nazionale. Ed è stata proprio Nadia, un po’ per scherzo e un po’ per gioco, che mi ha avviato a questa passione quando ero bambino».
Il resto è la storia di un ragazzo predisposto allo sport ma impegnato nel lavoro che cerca di fare bene tutte e due le cose. E ci riesce solo in parte: vince nelle categorie juniores, si toglie qualche bella soddisfazione a livello nazionale e europeo, ma alle Olimpiadi, davanti al pubblico delle grandi occasioni, sparisce. «Erano vent’anni che inseguivo questa medaglia – sospira adesso –. Ed è per questo che oggi quando ho capito che ero arrivato alla medaglia, ancora prima di affrontare il duello finale per l’oro, sono scoppiato in lacrime».
Qualcuno sostiene che quel pianto a dirotto, proprio prima della fase decisiva, gli abbia fatto perdere la concentrazione. Il classico tracollo nervoso. «No. Non credo – dice poco convinto – Il problema è stato il meteo. Per tutta la giornata ci sono state delle condizioni incredibili, vento e pioggia. I piattelli sembravano uccelli. Fortuna che sono cacciatore – tordi, colombacci e tortore – e anche se non vado spesso, un po’ di esperienza ce l’ho e così alla fine ce l’ho fatta».
E dunque via con i ringraziamenti. Che però sono particolari: «Il principale lo devo a me stesso: sono l’unico atleta della spedizione azzurra che non appartiene ai corpi militari dello stato. E non è semplice: lavorare e allenarsi insieme senza altri sostegni che quello della famiglia è davvero difficile. Ma, questo lo voglio dire anche agli altri atleti, si può fare».
A fianco a sé, nella conferenza stampa dopo la premiazione, con un po’ di ritardo per via dei test antidoping, arriva Fehayd Aldeehani, la medaglia d’oro. Alla tenera età di 49 anni, dopo due bronzi (Sydney 2000 e Londra 2012) è finalmente riuscito a vincere una medaglia d’oro. «Ma è stato un peccato non sentire l’inno del mio paese, il Kuwait, e non vedere la mia bandiera sventolare più alta di tutti, un dolore immenso». Il Kuwait è stato squalificato quest’anno e Aldeehani – che in due edizioni aveva portato la bandiera del suo paese alla cerimonia inaugurale – è stato costretto a sparare sotto le insegne del Cio. La sua medaglia d’oro non verrà assegnata al Kuwait che così rimarrà a quota due bronzi. Entrambi vinti da lui.