la Repubblica, 11 agosto 2016
Nessuno è campione per sempre e quello che attende ogni grande sportivo è una vita fatta di normalità. Vale anche per Federica
Ieri sera era la notte di San Lorenzo. Chissà se Federica Pellegrini ha potuto alzare gli occhi al cielo e scorgere una stella cadente? Se l’ha fatto, come vuole la tradizione avrà espresso un desiderio. Non lo dirà di sicuro – i desideri davanti alle stelle sono un segreto per tutti. Certamente non poteva riguardare le gare che aveva già disputato. Forse il desiderio, ammesso che nel cielo di Rio de Janeiro ci sia così poco inquinamento visivo da vedere le stelle, cosa di cui dubito, riguardava il suo futuro. Continuare a gareggiare oppure smettere. Nelle ore che sono seguite alle gare di ieri Federica deve aver pensato tante cose; alcune le ha anche dette o fatte dire dal suo cerchio. Sarà stato un assillo perfettamente comprensibile.
Per un campione o una campionessa, qualsiasi sia lo sport, viene un momento difficile, quello in cui, invece di salire il podio verso i gradini più alti, se ne resta esclusi. Non sono molte le categorie che conoscono così bene la gioia del successo e insieme l’amarezza della sconfitta. Forse solo i politici o i militari, e di sicuro coloro che corrono per raggiungere un traguardo, e a volte lo conseguono, ma il più delle volte lo mancano. Una vita dura quella degli atleti, perché per arrivare, come raccontano molte delle storie che circondano la carriera della stessa Pellegrini – una campionessa è anche il suo storytelling – occorre compiere molti sacrifici, vivere una vita al di sotto, o al di sopra, della normalità per diventare eccezionali. Come un contrappasso, perché chi raggiunge mete ambite, precluse ai più, deve pagare un prezzo molto alto in termini di rinunce, allenamenti, cose da fare o non fare, cui gli altri, gli “uomini comuni”, non devono sottostare.
La gloria ha un prezzo, per quanto il successo sia sempre un fatto stocastico; eppure quella casualità, che ti fa diventare diverso – un campione —, richiede fatica e prove continue. I greci lo sapevano e riservavano ai loro campioni un destino particolare: la fama imperitura. Se Federica Pellegrini ha rivolto lo sguardo al cielo stellato sopra di lei, come hanno fatto tanti ieri sera in Italia, avrà di sicuro meditato sul destino delle stelle, le quali brillano per un attimo e poi si spengono. Lontane da noi milioni di anni luce ci mostrano la loro luminosità passeggera, ci fanno sognare, e in qualche modo anche commuovere per la loro vita effimera, eppure infinitamente più lunga di quella di ciascuno di noi umani. Il desiderio espresso – se c’è stato – riguardava senza dubbio la voglia di normalità che abita anche una campionessa come lei. Qualcosa di ambivalente, di sicuro, perché essere eccezionali è una cosa straordinaria. Poi tutto ha termine, perché nessuno è campione per sempre, e quello che attende ogni grande sportivo, o sportiva, è una vita fatta di normalità.
Chi ha salito il podio, e ha collezionato vittorie, resta tuttavia sempre per gli altri, e in una certa misura anche per se stesso, una persona particolare. La fama fa diversi. Chissà se Federica conosce un racconto di Melville, l’autore di Moby Dick. S’intitola Bartleby lo scrivano. Uno strano personaggio, uno scritturale, pronuncia una frase diventata proverbiale non solo per i lettori di romanzi: «Preferirei di no». Ecco cosa può aver pensato sotto il cielo brasiliano la nostra campionessa: Preferirei di no. Qualsiasi cosa farà – abbandono dell’attività agonistica o continuazione —, un solo pensiero avrà attraversato la sua mente: Avrei preferito di no. Viene il momento della scelta. Per farla bisogna pensare non solo a se stessi. Difficile essere campioni fuori dalle gare. Eppure è necessario, e utile non solo a se stessi, ma anche agli altri. Noi “normali”.