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 2016  agosto 11 Giovedì calendario

Andria, un mese dopo la strage del treno. Un inferno

Che accade un mese dopo l’inferno? Alle 11,06 del 12 luglio su questo campo tra Andria e Corato due treni delle Ferrovienordbarese si sono scontrati senza riuscire a frenare. Ventitrè morti, cinquanta feriti. Trenta giorni dopo i pezzi di lamiera sono ancora qui, sequestrati dalla procura e abbelliti da fiori freschi. Mentre tutt’attorno spuntano pezzi di vita che, mai più, torneranno ai posti di prima.
L’ODORE DEL SANGUE
«Per me il tempo si è fermato in quel minuto». Valentina Achille, 23 anni, era su quel treno perché era diretta all’Università. Codice giallo, racconta il referto del Pronto soccorso. Scrive, mentre su Facebook pubblica le sue foto in ospedale abbracciata ai clown con i nasi rossi: «Non sono fra quelli che dicono “potevo esserci io”! No, io c’ero, ero seduta a quel tavolino che mi ha fatto tanto male, ma che forse mi ha salvato la vita, e ricorderò per sempre le urla, la disperazione di chi era bloccato, chi non poteva muoversi o vedeva la persona seduta accanto a loro spegnersi. Il rosso, uno dei miei colori preferiti, ora ha anche un odore, quello del sangue versato da me e da altre tantissime persone. Sembrava tutto un film, ma gli effetti speciali erano più che veri. Io così lo immagino l’inferno, un piccolo deserto, una terra dispersa di cui nessuno sa darti indicazioni, il rosso che primeggia sugli altri colori, il caldo infernale, i piedi bruciati dalla terra bollente e il canto delle cicale che ancora riecheggia nelle mie orecchie. Ogni volta che cercherò di andare avanti le cicatrici mi ricorderanno tutto».
RITORNO ALLA MUSICA
«Trauma cervicale» racconta invece il referto di Raffaele Di Ciommo, 31 anni. Qualche giorno di ospedale, «e poi sono corso a fare tutto quello di cui avevo bisogno: cantare». Raffaele, in arte, si chiama Nino Rigione. È un cantante neo melodico napoletano, sabato e domenica sarà in concerto tra Bisceglie e Molfetta, ma prima ha voluto salire su un altare per cantare: l’Ave Maria di Schubert, in chiesa.
LA PSICOLOGA E IL VIGILE DEL FUOCO
«Tutti raccontano di un senso di irrealtà, una situazione incantata, quasi soprannaturale». Antonella Di Noia è uno dei medici che sta cercando di mettere a posto i pezzi di questo puzzle. È una delle psicologhe della Asl che per prima ha seguito superstiti e parenti delle vittime. E ancora oggi continua ad ascoltarli. «Hanno bisogno di parlare. Raccontano tutti di questo grande caldo, dei grilli che si sentivano forte cantare. E poi lo schianto, loro che camminavano tra le lamiere, tra corpi non interi, tra gente che chiedeva aiuto. Hanno la sensazione comune dell’irrealtà, di aver vissuto nel sospeso». Marco è uno dei vigili del fuoco che non riesce più a lavorare: ne ha salvati molti e perso qualcuno. Oggi piange. Marta De Biase era in una delle carrozze del fondo. Ha solo qualche graffio, ma non riesce nemmeno più a sentire il rumore del treno. Di notte si sveglia per piange. E la mattina al lavoro l’accompagna il papà. «Sono tanti i soccorritori che si stanno rivolgendo a noi: non riescono a superare quelle immagini, non riescono a vincere i sensi di colpa. Ci vorrà tempo, molto tempo».
I CAPISTAZIONE
Ci vorrà del tempo, dice la dottoressa. E ci vorrà del tempo confermano anche gli avvocati dei due capistazione. I magistrati hanno sulla scrivania le immagini di quanto accaduto alla stazione di Andria. C’è poco spazio all’immaginazione: Vito Piccarreta, il capostazione, esce sulla banchina e alza la paletta. Il treno parte e invece non doveva partire. Che è successo? «Confusione» continua a ripetere lui alle persone che gli sono vicine, in questi giorni di grande dolore tra casa e chiesa, e una puntata anche in ospedale. Piccarreta ha già spiegato ai magistrati la sua verità. Ha preparato un plastico e ha chiesto, la scorsa settimana, di essere risentito.
Vuole rientrare al lavoro invece Alessio Porcelli, il secondo degli indagati, il capostazione di Corato. «Non ho fatto nulla che non avrei dovuto. Ma quei treni, i viaggiatori sono la mia vita» ripete al suo avvocato, Massimo Chiusolo. Voleva partecipare ai funerali delle vittime, qualche giorno fa ha voluto andare ad abbracciare il collega Nicola Lorizzo, ancora ricoverato in ospedale al Policlinico. «Non ricordo niente» giura. Hanno pianto insieme, però, i tre colleghi che non ci sono più.
IL GENIO DAI CAPELLI ROSSI
Trenta giorni sono troppo pochi per poter asciugare qualsiasi lacrima. Troppo pochi anche per chi è speciale. Anche per Natale e Tiziana Tedone, i fratelli di Francesco, 17 anni, Francesco “San”. «Mio fratello era tornato a casa 24 ore prima di quel dannato incidente», raccontano nel giardino di casa mentre sfogliano orgogliosi pagelle e fotografie. «Era un genio, ci sono poche altre parole per descriverlo. Aveva vissuto per 11 mesi in Giappone, in uno di quei progetti Intercultura. Era il suo più grande desiderio: Francesco amava l’Italia, amava anche Corato il suo paese. Ma ne detestava la superficialità, la mancanza di rispetto. Il Giappone, diceva, funziona perché ciascuno fa la sua parte». Natale usa parole precise: ricorda quando, prima ancora che montassero l’ospedale da campo, è corso sul luogo dell’incidente per cercare suo fratello. Quando davanti allo schermo del Pronto soccorso non ha trovato il suo nome. Quando ha visto il primario di Medicina Legale piangere e abbracciare suo padre. Quando gli hanno chiesto 800 euro per il trasporto della salma: perché le vittime avevano pagato i biglietti del treno. Ma poi è stato chiesto loro anche il conto della loro morte. «Nessuno mi dica – dice Natale – che Francesco è morto per un errore. Francesco è morto per quello che odiava dell’Italia. Perché qualcuno, evidentemente, non ha fatto quello che doveva. Qualcuno ha alzato una paletta che invece, doveva rimanere abbassata. Qualcuno faceva viaggiare treni senza alcun sistema automatico di controllo, affidando la vita nostra, dei nostri cari, all’errore umano. Io e Francesco avevamo, nonostante la differenza di età (ndr, Natale ha 26 anni) alcune passioni comuni: le stelle, e infatti domani lo ricorderemo proprio al nostro osservatorio, guardando verso il cielo. E poi l’informatica, i videogiochi. Ormai qualsiasi applicazione ha un Gps, qualsiasi telefono è in grado di dirci dove siamo in qualsiasi momento. Possibile che nel 2016 nessuno poteva accorgersi, in tempo reale, che quei treni stavano per scontrarsi? Francesco, se fosse stato un Pokemon, non sarebbe morto».