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 2016  agosto 11 Giovedì calendario

«Un dolore così forte poche volte l’ho sentito». La Pellegrini è fuori dai Giochi. E ora sta male

«Fa così male che non potrei descriverlo». «Non è un dolore di uno che accetta», «è il dolore di una che sa». «I pianti per i dolori». «Sentirsi come se ti avessero appena preso a pugni». E comunque «un male così forte poche volte l’ho sentito».
Il dolore di solito è una dimensione privata dello sport. Le telecamere possono rubare un urlo o un pianto. Non entrano nelle stanze del villaggio olimpico, e neppure nel residence Bora Bora, che dietro il nome esotico nasconde gli ambulatori dove si medicano tendini e muscoli, dove si consumano le sofferenze fisiche e morali di chi brucia quattro anni in pochi secondi.
Quel dolore Federica Pellegrini ha deciso di renderlo pubblico. Come pubblici sono stati i suoi amori, i suoi tatuaggi, le sue confessioni. La sua vita; prima ancora che cominciasse la moda dei social, ai quali è arrivata tardi (una volta prese a prestito il profilo di una collega per litigare con un’altra). Tutti sapevano con chi era fidanzata, quanto guadagnasse, quali piercing avesse e dove; ora tutti conoscono quanto possa essere dolorosa la vita di una campionessa che forse non ha saputo ritirarsi al momento giusto, o a cui più semplicemente è mancata una stilla d’energia – 26 centesimi di secondo – per conquistare una medaglia che sarebbe stata storica, alla quarta Olimpiade, che per lei finisce qui.
Ma Federica Pellegrini è comunque destinata a restare. Non solo perché è stata la prima italiana a vincere un oro nel nuoto ai Giochi. E non solo perché è diventata portabandiera di una generazione, come Valentino Rossi. Resterà perché ormai fa parte delle nostre vite, da quando ad Atene la vedemmo arrivare sedicenne, appena passata dai cartoni animati agli horror, dalle Barbie al primo tatuaggio. Lei durerà oltre lo sport, perché oltre lo sport è sempre stata. Il suo corpo, da atleta e da modella, è stato qualcosa di più del corpo di un atleta palestrato o di una modella anoressica; e nella sua inquietudine si sono riconosciuti di volta in volta adolescenti, ragazzi, e ora i quasi trentenni.
Molto amata e molto invidiata – come si vede anche dalle reazioni di queste ore —, a Federica mancava un tassello: il dolore, appunto. È una parola che va maneggiata con cura. Il dolore che si può provare all’Olimpiade è ovviamente diverso da quello degli ospedali o delle favelas; ma è comunque un dolore. C’è la sofferenza dell’infortunio: la corda tesa che si spezza, il cavallo di razza che cade. E c’è la sofferenza di una sconfitta, del corpo che non risponde più – «dalla fatica che facevo non mi rendevo conto di andare così piano» -, della carriera che volge alla fine: «Forse è tempo di cambiare vita». Gli sportivi della nostra giovinezza se la tenevano dentro: Zoff dopo il linciaggio di Argentina 1978 poteva piangere, non sfogarsi in pubblico. Ma questo è il tempo della giovinezza altrui; e nessuna come Federica Pellegrini ha saputo darle un nome, un volto, un corpo; ora anche un dolore.