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 2016  agosto 10 Mercoledì calendario

Molière raccontato da Bulgakov. Così lo scrittore russo lo vide nascere e conquistare il re e il mondo

Il 13 gennaio 1622 la signora Poquelin, nata Cressé, partorì il suo primogenito: un bambino prematuro. Alla nascita era presente Michail Bulgakov, l’autore di Il maestro e Margherita, che nel 1933 scrisse un bellissimo libro: La vita del signor de Molière, pubblicato dall’editore Castelvecchi nella traduzione di Emilia Piersigilli. Bulgakov sapeva che, se quel bambino fosse morto nei primi giorni di vita, sarebbe stata una perdita gravissima per la Francia e il mondo. La levatrice sostenne: «Se morisse, la signora Poquelin ne partorirà un altro». Ma Bulgakov protestò: «Vogliate rendervi conto che, da qui a tre secoli, in un Paese remoto, la Russia, io mi occuperò di voi soltanto perché avete tenuto in braccio il figlio del signor Poquelin. Questo bambino diventerà più famoso del re Luigi XIII e persino di Luigi XIV, il re Sole. Le sue opere verranno tradotte in tedesco, inglese, italiano, castigliano, olandese, danese, portoghese, polacco e infinite altre lingue; ed eserciteranno un’influenza spettacolosa sulla letteratura universale».
Il padre, Jean-Baptiste Poquelin, possedeva una casa in un rumorosissimo quartiere commerciale del centro di Parigi, vicino al Pont-Neuf. Era il tappezziere di corte: poi ricevette un titolo più solenne: «Cameriere personale di Sua Maestà il re di Francia». Sull’ingresso della bottega aveva appeso un’insegna, con una scimmia. La madre era ricca: nei suoi grandi armadi nascondeva abiti costosi, stoffe fiorentine; i suoi cassetti contenevano collane di perle, bracciali di diamanti, anelli di smeraldi, orologi d’oro. Leggeva la Bibbia e persino (forse) Plutarco.
Il piccolo Jean-Baptiste era balbuziente, e passava il tempo osservando dall’alto il colorato viavai della folla per le strade lerce di Parigi. Il 15 maggio 1632, quando aveva 10 anni, la madre morì. Il padre si risposò e cambiò casa: andò ad abitare nel quartiere dove si teneva la famosa fiera di Saint-Germain; e impose al figlio di occuparsi della bottega, misurando stoffe e fissando tessuti con i chiodi. Il piccolo Jean-Baptiste diventò amico del nonno, anche lui tappezziere: entrambi avevano una grande passione per il teatro, e andavano nella sala bassa e buia dell’Hôtel de Bourgogne, dove recitava la compagnia del Théâtre Royal. Alle tragedie il ragazzo preferiva le commedie: commedie futili, imitate per lo più da testi del teatro italiano; così che, per diversi anni, davanti ai suoi occhi sfilarono come in un vortice, camuffati e truccati con farina e vernici, dottori pedanti, vecchi avari, capitani paurosi, mogli angeliche, mariti brontoloni, ruffiane grottesche, servi furbissimi. Le risate del pubblico e dei due Poquelin facevano tremare le mura dell’Hôtel de Bourgogne e del Théâtre du Marais.
Quando raggiunse i 14 anni, Jean-Baptiste Poquelin cominciò a frequentare il collegio parigino di Clermont, dove insegnavano i membri della Compagnia di Gesù, maestri della famiglia reale. Studiò il latino: si immerse nella lettura di Plauto, Terenzio e Lucrezio: poi di Pierre Corneille; e dimenticò la bottega del tappezziere. Conobbe una grande attrice, Madeline Béjart, e si innamorò di lei. Conobbe Pierre Gassendi: storico, filosofo, fisico, retore, insegnante di matematica, che gli insegnò ad amare Copernico e Giordano Bruno, Galileo e Bacone, la disputa chiara e precisa, l’odio per la scolastica, il rispetto per l’esperienza, il disprezzo per le menzogne. «Di fronte a me – scrive Bulgakov – c’è un giovanotto con parrucca chiara. Fisso lo sguardo con avidità su quest’uomo. Nel volto allungato dagli zigomi sporgenti, sono spalancati due grandi occhi. In questi occhi leggo uno strano, costante ghigno sarcastico: una specie di eterno stupore di fronte al mondo: qualcosa di voluttuoso e di femminile; e nel profondo una segreta paura. Credetemi, in quest’uomo di vent’anni, si cela già un tarlo che lo rode. Cambia all’improvviso d’umore. Passa facilmente da momenti di allegria ad altri di raccoglimento profondo».
Per qualche tempo, Jean-Baptiste Poquelin studiò diritto a Parigi. Poi smise di studiare legge: ricordò la passione della sua adolescenza: si presentò a una compagnia d’attori girovaghi, chiedendo di esordire in una parte qualsiasi; studiò accanitamente il teatro classico e ottenne piccole parti in spettacoli per dilettanti, come quella di spegnere la candela alla fine del Cid di Corneille. Il padre gli dette 800 luigi, con cui diresse una nuova compagnia teatrale: L’illustre Théâtre. Adottò lo pseudonimo di Molière: attraversò la Francia con la sua troupe; quando arrivò a Bordeaux, il sole brillò per la prima volta sul destino della sua compagnia.
Con grande successo Molière recitò in un castello vicino a Pézenas: il principe di Conti concesse alla sua compagnia il diritto di chiamarsi Compagnia della Corte del principe di Conti, e la soccorse con un eccellente compenso fisso. Il principe gli offrì il posto di segretario, che Molière rifiutò. Ma recitò per due anni sotto la sua protezione: abitò a Lione in un comodo appartamento, vestì con eleganza, diventò amico del miglior barbiere di Pézenas, e scoprì il favore del pubblico. Nel 1655 scrisse L’Étourdi che rappresentò con un successo eccezionale: poi Le dépit amoreux, una commedia in 5 atti, che recitò a Lione, Nîmes, Orange, Avignone, dove un pittore celebre, Pierre Mignard, lo ritrasse in molte pose diverse.
Quando Molière tornò a Parigi, Philippe d’Orléans, giovanissimo fratello minore di Luigi XIV, gli offrì la sua protezione. La sera del 4 ottobre 1658, nella Sala delle Guardie del Louvre, rappresentò Nicomède di Corneille. Parlò a lungo con Philippe: sul suo viso aleggiava un sorriso adulatorio: il volto era contratto in piccole rughe, con un’espressione di ipocrita dolcezza; gli occhi erano attenti e astiosi, la voce ora maestosa ora volgare. In prima fila, seduto su una poltrona vicino a Philippe, stava un ventenne, con lo sguardo immobile e il labbro inferiore sdegnosamente sporto in fuori: Luigi XIV. Molière tenne un discorso: «Vorrei chiedere a Sua Maestà il permesso di recitare una piccola commedia, una cosa da nulla, che però in provincia ha avuto molto successo». Era Le docteur amoureux, con Gorgibus, Gros-René, Sganarelle. Tutti, nella sala, risero a crepapelle: finché le risate non si trasformarono in un bru-ha-ha, un clamore colossale, al quale partecipava il giovane re altezzoso, che rideva fino alle lacrime, rovesciato su una poltrona, asciugandosi gli occhi con un fazzoletto. Molière disse tra sé: «Vittoria», e continuò la sua tirata. Alla fine, risero perfino i moschettieri di servizio. Il re diceva: «Ma da dove viene questo qui? Chi è? E tutti gli altri? Chi è Du Parc? E la cameriera? Da chi hanno imparato? Sono più bravi degli attori italiani! Gli scherzi di questo Molière sono impagabili».
Con amabilità e divertimento, Bulgakov accompagna la vita di Molière sino alla fine. Luigi XIV si avanza in primo piano, e ordina al suo attore di scrivere una tragédie-ballet, il genere che egli preferisce, per il carnevale del 1671. Ma Molière è infelice: ama la moglie, che non lo ricambia: è circondato dalla maldicenza: la sua salute peggiora ogni giorno; finché la malattia rivela di essere una furibonda ipocondria, una scatenata, tenebrosissima malinconia. Sputa sangue, tossisce, perde il controllo di sé stesso. Viene assalito da veri e propri attacchi di rabbia, che lo rendono insopportabile anche agli amici. Ma la furia del divertimento non lo abbandona. Ecco, nelle turqueries del Bourgeois gentilhomme, giungere il Mufti, che si rivolge a Monsieur Jourdain in un misto di portoghese, spagnolo ed italiano:
Si te sabir,
ti respondir;
se non sabir;
tazir, tazir.
Mi star Muftì;
ti qui star ti?
Non intendir;
Tazir; tazir.
Molière diventa ricco, e prende in affitto un grande appartamento a rue Richelieu, che arreda lussuosamente. Ma è ossessionato dall’angoscia: misura lo studio a grandi passi, con la testa avvolta in uno scialle di seta, come una vecchietta: tossisce e sputa, tossisce e sputa: ogni tanto si sofferma a osservare una stampa; ogni oggetto sembra rivolgerglisi contro, carico di un’ossessione pietrificata.
Il 17 febbraio, sulla scena del Palais-Royal, dottori in berretto nero e farmacisti armati di clisteri consacrano dottore il bachelierus Argan:
Mais si maladia
Opiniatria
Non vult se garire;
qui illi tacere?
Il bachelierus Molière grida allegramente la risposta:
Clysterium donare;
postea seignare;
ensuitta purgare.
Alla fine della recita, Molière ha freddo: viene imbacuccato, sollevato in carrozza e portato a casa, dove è messo a letto. Tossisce, e poi tossisce, e ancora tossisce. Sputa sangue, macchiando il lenzuolo e il fazzoletto. La fronte è imperlata di sudore: il corpo scosso da un tremito incessante. Ha visioni, o crede di averle: la fine del mondo, con il sole, una palla di fuoco che scompare sommerso nelle acque. Molière pensa: «Questo non è il momento adatto. Sto morendo». Ha ancora tempo di dire: «Chissà che faccia ha la morte». Vede subito la faccia della morte, perché la morte si precipita nella stanza, avvolta in una cappa funerea, facendo un ampio segno della croce. Molière vuole guardarla a lungo, ma i suoi occhi non scorgono più niente. La sera del 21 febbraio 1673 il cadavere è trasportato nel cimitero di Saint-Joseph, dove viene sepolto nel settore dei suicidi e dei bambini non battezzati. Nella chiesa di Saint-Eustache, un prete annuncia che martedì, 21 febbraio 1673, era stato seppellito il tappezziere e valletto di corte Jean-Baptiste Poquelin Molière.