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 2016  agosto 09 Martedì calendario

Equity, il primo film sulla finanza al femminile

In una delle prime scene di Equity, Naomi Bishop, senior investment banker presso la più importante banca di Wall Street, tiene un discorso alle studentesse del suo vecchio ateneo. Alla domanda su cosa la spinga a tirarsi fuori dal letto ogni mattina, risponde: «Mi piacciono i soldi. Non starò a dirvi che faccio questo lavoro per prendermi cura degli altri. Va benissimo farlo per noi stesse. La verità è che lo faccio per il potere e il denaro. L’ambizione femminile non è più una parolaccia».
Presentato al Sundance a gennaio, e uscito nei giorni scorsi negli Stati Uniti, con grande pianificazione, il giorno dopo che Hillary Clinton ha conquistato, prima donna nella storia, la nomination per la Casa Bianca, Equity, con Anna Gunn di «Breaking Bad» nel ruolo principale, è il primo film sulla finanza al femminile. «La lupa di Wall Street», come l’ha ribattezzato Rolling Stone Usa. E in quanto tale non poteva che esser scritto, diretto, prodotto e finanziato interamente da donne.
Perché in passato, nella cultura popolare, le donne nella finanza sono state mogli e amanti ( Wall Street, Il falò delle vanità, Il lupo di Wall Street ), prostitute ( American Psycho ), segretarie (tutte), al massimo promiscue funzionarie della Consob d’Oltreoceano ( La grande scommessa ). Nel 1988, Una donna in carriera di Mike Nichols, con Melanie Griffith, propose una riflessione nuova, creando però anche nuovi cliché (l’unica donna manager del film, Sigourney Weaver, ne è anche il personaggio negativo). Perfino nella recentissima Billions, la sola donna presso l’hedge fund di Bobby Axelrod è una psicologa. Tutto questo a dispetto dei numeri: il 60% dei dipendenti dell’industria finanziaria mondiale è donna – anche se solo il 19% in posizioni manageriali e solo il 2% in quella di Ceo.
Equity eredita le atmosfere dark di un altro film indipendente ( Margin Call, del 2011, dove personaggio minore era una tipa monodimensionale a capo della gestione rischi) per raccontare una realtà diversa: quella di una investment banker che sgomita per la promozione mentre gestisce il controverso sbarco in Borsa di un’azienda hi-tech. Il lavoro è la sua ossessione, e per approdare in sala di consiglio non ha avuto figli. Ma Bishop non è un Gekko al femminile: non mente a se stessa sul prezzo che paga per un loft a SoHo e diamanti che sembrano nocciole. Soprattutto, pur essendo la migliore nel suo campo viene continuamente sabotata da colleghi maschi che sfiorano lo psicopatico. «Sarò onesto», le fa il suo capo con un ghigno. «Non credo che sarà il tuo anno. Hai fatto incavolare troppe persone».
Potrebbe essere l’inizio di un filone. Nel 2017 arriverà Opening Belle (Warner Bros.), commedia con Reese Witherspoon ispirata al romanzo semi-autobiografico di Maureen Sherry, ex managing director di Bear Stearns. Che pur denunciando il sessismo dell’ambiente, con i manager che disegnano il seno delle aspiranti broker sui curricula per usarlo come criterio di assunzione, risente di un finale hollywoodiano (la protagonista se ne va, portandosi dietro i clienti migliori). Equity, che non ha dietro gli studios, dà un quadro più realistico.
E arriva, non a caso, in un momento in cui a Wall Street si parla sempre più apertamente del bieco maschilismo cui sono da sempre soggette le donne. Se nel 1996 aveva fatto storia la class action di 23 donne contro la pratica di orge e molestie sessuali di Smith Barney, oggi la misoginia riguarda le mancate promozioni, la disparità di paga. Due mesi fa una managing director ha fatto causa a Bank of America per la sistematica esclusione dalle riunioni. Il suo bonus, l’anno scorso, è stato di 1,5 milioni di dollari, contro i 5,5 di un collega maschio con identiche mansioni.
Ma le donne di Equity non sono delle sante. Proprio come gli uomini, sono disposte a tutto, anche a ignorare le regole. Erin Manning, ambiziosa protégée di Bishop, le nasconde la propria gravidanza, temendo che la sua stessa mentore, scoprendolo, non la sostenga più. Ed è stata proprio la volontà di rappresentare le vere investment banker, ad attirare un pool di finanziatrici di Wall Street. «Le donne non sono solo vittime, nel film non c’è l’“Oh, poverina”», osserva Linnea Roberts di Goldman Sachs. «Si fregano fra loro come i maschi. Perché sono prodotti della stessa cultura: il dio denaro».