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 2016  agosto 09 Martedì calendario

L’argento di Pellielo, nonno della spedizione azzurra

Rio de Janeiro Se è vero, come diceva dodici anni fa ai Giochi di Atene, «che l’imponderabile è sempre dietro l’angolo», Giovanni Pellielo da Vercelli, l’uomo che sussurra alle schioppettate tanto quanto a un misticismo profondo e sentito, non deve essersi incavolato più di tanto per quel piattello che è volato via nello spareggio con il croato Josip Glasnovic, portandosi via il titolo olimpico del trap che insegue da sempre. Difatti, Johnny il reverendo è rimasto imperturbabile, modulando nella zona mista un saggio di fair play iscrivibile al filone della cosiddetta «cultura della sconfitta»: «Non penso a una vittoria mancata, ma a un altro argento che è arrivato: è la quarta medaglia ai Giochi, va bene così. Non devo cercare alcun oro». Il nonno della spedizione azzurra, 46 anni e l’idea «che lo sport allunga la vita e non deve farla finire presto», ringrazia e porta a casa, ricordandoci che la sua disciplina «è legata al nulla». Un grazie va anche al c.t. Albano Pera: «Dopo un’annata senza risultati, temevo di essere diventato troppo vecchio. Gliel’ho domandato, ma lui mi ha convocato ugualmente: ha avuto ragione». Dopo la semifinale che l’ha qualificato al barrage con Glasnovic e che ha estromesso dalle medaglie l’altro azzurro, Massimo Fabbrizi, l’argento di Londra – eh sì, pare siamo abbonati a questa colore —, Pellielo si è trasformato in Del Piero e ha fatto il gesto della linguaccia. Non era irriverenza, era ironia. E gioia «da estendere anche al mio mondo e agli amici del tiro a volo». L’avrebbe voluta esibire pure a Glasnovic, il successore di Giovanni Cernogoraz, perché ultimamente all’Olimpiade è una questione tra noi e i croati, anche se poi vincono loro. Johnny ha avuto la chance dell’allungo risolutivo al sesto piattello, mancato da Josip che fino a quel punto era stato un demonio; ma ha ciccato il settimo e l’ottavo, riuscendo a centrare il 13-13 e lo shoot-out quando il cugino d’oltre Adriatico ha toppato il terz’ultimo.
Il racconto non riguarda il quarto colpo dell’overtime, quello fatale, ma il primo di questi due errori: «Ho sbagliato perché quando sono andato in rotazione per tirare al piattello, c’era vento da sinistra. Mi ha sorpreso. E mi ha leggermente impaurito. Quando si prende paura, si sa… Prima si è abbassato e poi si è rialzato: impossibile beccarlo». Ammissione aggiuntiva: «Ha influito il precedente errore del rivale? No, l’avrei sbagliato comunque». Chissà se gli sarà venuta in mente un’altra delle sue frasi-cult, pronunciata a Sydney 2000 con il bronzo al collo: «Quando alzo gli occhi al cielo per inquadrare il piattello, vedo Dio e lo ringrazio di avermi creato». L’Eterno ha però creato anche un tiro a volo che in questi anni ha modificato le regole, penalizzando i migliori come Giovanni. Adesso si cambierà di nuovo – sarà abolita la semifinale e si adotterà una finale ad eliminazione progressiva —, ma nel parlato del «nonno» dall’eloquio morbido e gentile, condotto con il plurale majestatis, non manca il rammarico nei confronti «di queste formule sempre più ridotte e scarne».
Gli rimane la constatazione di aver spaccato più piattelli di tutti, ma questo non fa brodo. Tanto vale, allora metterla sulla battuta («Sarà Pera che mi ha “attaccato” l’argento: lui lo vinceva sempre»), sull’orgoglio («Nello spareggio, ho messo pressione a Josip: sapeva con chi aveva a che fare») e affacciarsi al futuro: «Arriverò fino a Tokyo 2020? Se vivrò, forse sì. La caccia all’oro non rischia di diventare una piccola ossessione? Se così non fosse, che cosa scrivereste? Bisogna dire che c’è questa ricerca dell’oro, anche per non montare troppo in vanagloria. E se il titolo olimpico non è arrivato, evidentemente non siamo stati bravi a sufficienza». Semplice e leale.