Corriere della Sera, 9 agosto 2016
L’imperatore giapponese Akihito non ce la fa più. È la vittoria dell’intelligenza sull’intangibilità del potere
Ero in campo di concentramento quando il vecchio imperatore Hirohito ha parlato per la prima volta alla radio annunciando la resa del Giappone. Da qualche ora c’era un silenzio strano nel campo. Non si sentivano le solite urla dei guardiani. Ricordo che mio padre, allora un giovanotto, fu tenuto appeso per i piedi dai suoi compagni di prigionia perché potesse penetrare di nascosto nell’ufficio chiuso a chiave dei guardiani che erano accorsi non so dove e ascoltare la radio che stava comunicando qualcosa di molto importante. Solo lui infatti conosceva il giapponese antico con cui parlava l’imperatore Hirohito.
Quando lo tirarono su, raccontò a tutti noi che la guerra era finita, l’imperatore si era arreso a nome della nazione, gli alleati avevano occupato il Giappone. Sembrava una cosa incredibile dopo le tante minacce che ascoltavo terrorizzata nascondendomi fra le gambe di mio padre: «Quando vinceremo la guerra vi taglieremo la gola», dicevano. Ecco che la guerra era finita e le nostre gole erano salve.
La enormità di un discorso come quello fatto ieri dall’imperatore Akihito, fuori da ogni tradizione e consuetudine imperiale, credo sia stata possibile proprio dalla difficile e penosa dichiarazione del vecchio imperatore che aveva avuto l’imprudenza di allearsi coi nazisti.
Un imperatore non si dimette. Come non si dimette un Papa. Ma pure le metamorfosi storiche hanno portato a questi gesti una volta considerati impossibili. La grande novità consiste nella vittoria della logica sulla intangibilità del potere. La sacralità di un ruolo che viene vinta dalle ragioni della debolezza umana, dal riconoscimento di una inadeguatezza che una volta sarebbe stata nascosta ed esorcizzata da mille rituali e oggi invece mostra la sua faccia onesta e realistica.
Qualcosa sta faticosamente buttando all’aria le vecchie gerarchie. E paradossalmente potremmo dire che questi segnali rivoluzionari sono proprio quelli che provocano le reazioni piu disordinate e rabbiose, le risposte isteriche di chi vuole fermare il sole e la luna dentro un sogno di immortalità, di fronte al riconoscimento vitalissimo della debolezza umana e della sua sostituibilità. Qualcosa che nega e contraddice, noi pensiamo con illuministica ragionevolezza, la pietrificazione del potere.
È naturale che questo capovolgimento susciti paure oscure e deliranti, come di una voce orrifica che annunci la fine di ogni tradizione consacrata, qualcosa che stravolge le memorie innamorate di un passato nobile e glorioso.
La storia ci insegna che i momenti piu pericolosi sono proprio quelli delle metamorfosi politiche e sociali: il Rinascimento che produce la caccia alle streghe e i roghi degli infedeli, la Riforma che genera la Controriforma: a mio parere una delle esperienze più devastanti per il nostro Paese, un ritorno indietro che stiamo ancora pagando.
Il mondo comunque va avanti, i roghi producono disastri e dolori infiniti, ma non fermano la storia. I cambiamenti non si possono evitare. L’intelligenza consiste nel guidarli, per quanto possibile, perché arrestarli non si può. E i tanti giovanotti ebbri di gloria che tentano di bloccare le inevitabili mutazioni, sono destinati a fallire. Anche se l’ansia di martirio diventa contagiosa e l’epidemia sembra inarrestabile. Tutto corre rapido e sta a noi evitare di cadere nel precipizio, creando ponti su cui si possa transitare scavalcando il disastro e le frane.