La Lettura, 7 agosto 2016
Sui nomi degli Hotel, dal Miramare al Bellavista
Spesso i romanzi narrano le atmosfere (lievi o cupe) di hotel e pensioni: Nagib Mahfuz descrive l’elegante Miramar di Alessandria d’Egitto (Feltrinelli, 2009), il temibile Overlook è in Shining di Stephen King (Bompiani, 2014), l’Hotel Sand nella riviera romagnola si trova ne La gemella H di Giorgio Falco (Einaudi Stile libero, 2014). Classico l’Hotel des Bains ne La morte a Venezia di Thomas Mann, insolito il Dolphin Hotel di Sapporo in Dance Dance Dance di Murakami Haruki (Einaudi, 2013)
Molti, moltissimi anni fa, a qualcuno sarà venuta questa idea: di chiamare il suo nuovo albergo, appena edificato sulla spiaggia, o chissà in quale altra posizione con vista, «Miramare». Così, avrà pensato, quelli che sentiranno questo nome capiranno subito che c’è una bella vista, e ne saranno attratti. Non so chi sia, ma è ingiusto che non sia passato alla storia. Perché da lì, da quel momento, questa intuizione è piaciuta a molti, e le pensioni, le locande, gli alberghi e gli hotel Miramare si sono moltiplicati, sono spuntati in ogni angolo del Paese, in ogni spicchio di mare visibile fino anche a occupare spazi più improbabili rispetto alla promessa; e forse alcuni sono sorti dopo con intento ironico, chi lo sa. Perché lo spazio era finito ma l’ostinazione no, e quindi alcuni Miramare non lo sono affatto, il nome e il significato si sono allontanati, sembra una truffa ma non lo è, riguarda semplicemente la moda del nome, e quindi è un gesto simile a quello che facevano alcuni nuovi proprietari di bar quando decidevano di chiamarli Tiffany dopo il film Colazione da Tiffany. E allora ce ne sono in una strada del centro dove al quinto piano, un po’, si vede l’orizzonte che incontra cielo e mare; o nella campagna assolata, come se volesse dire: prima il mare stava qua, lo giuro. Oppure era Miramare davvero prima che la speculazione edilizia occupasse la visuale con un altro palazzone che guarda il mare ma si chiama «President». Cose così.
L’inventore del nome Miramare avrebbe anche da incassare diritti d’autore per altre due varianti: Miramonti e l’azzardatissimo Miralago. Alcune baite o albergoni con varie ali si affacciano su monti e laghi e si autodefiniscono. Affinché non ci siano malintesi.
In questo modo, anno dopo anno, l’Italia ha costruito una specie di macchia che si è estesa lenta e inesorabile sul concetto di «prospiciente». Guardando e affacciandosi e protendendosi verso mari, monti e laghi, gli alberghi italiani si sono autoproclamati tutti «con vista» fregandosene dell’omonimia ma anzi puntandovi. È come se una famiglia italiana, negli anni, potesse percorrere le strade delle ferie, anno dopo anno, passando da un Miramare all’altro, da un Miramare a un Miramonti, e la questione è diventata così diffusa che è come se fosse il corrispettivo del signor Rossi per il settore di ricezione del turismo. Poi, appunto, c’è la promessa che non viene mantenuta, e spesso succede, e quindi si finisce sempre per andare alla reception a protestare che la vista mare è limitata o che il nome dell’albergo è eccessivo.
E in ogni caso, come sappiamo bene tutti, la vista mare o monti o lago spesso è privilegio di altri, ma non nostra, perché per ogni edificio tridimensionale c’è sempre la tristezza del «dietro»: davanti ci sono mari, monti e laghi, e dietro c’è il nulla, o il palazzo di fronte da dove guardano la tua vita di passaggio, oppure cortili angusti, condominii popolari di colore viola perché l’architetto ha deciso di dare un tocco di contemporaneità; oppure, più spesso, un coacervo di tubi e di grandi oggetti bianchi o beige che sono i condizionatori di tutto l’albergo e in particolare, i più belli, delle suite con vista mare. E che però, per non offendere l’occhio che guarda dal mare, vengono occultati «dietro». E quindi le stanze dall’altra parte del corridoio sono delle camere dove il buio impera, i suoni delle ventilazioni crescono e la malinconia comincia ad avvicinarsi con volume roboante, come gli uragani che appaiono all’orizzonte, e anche se scappi sono più veloci di te e verrai inghiottito in maniera implacabile e resterai tramortito sul letto, con la pala sul soffitto che gira lenta, che non elimina il sudore, ma gli fa fare un giro e te lo ributta addosso, sulla fronte e sulla pancia. Perché i condizionatori non sono per la tua stanza, a te deve bastare la pala che gira, gira, gira, ma mai abbastanza vorticosamente come ti era stato promesso.
Nessuno più – almeno, spero sia così – chiama i suoi alberghi Miramare, Miramonti e Miralago. Ah, attenzione: poi c’è anche la variante Bellavista, anche quella abbondante, e all’apparenza più generica, ma chissà forse invece più fiduciosa dell’autoconservazione, più – ecco, appunto – lungimirante. Perché è come se si mantenesse cauta pensando alla deriva dei continenti e al cambiamento della penisola nel tempo ed è come se pensasse: le vedi quelle montagne? Quelle prima erano delle rocciosità sottomarine, poi nei millenni tutto è cambiato. E quindi il padrone dell’Hotel Bellavista pensa che il suo albergo ci sarà ancora tra dodicimila anni, ma non sarà più davanti al mare ma alle montagne. E questo è bello, e l’unica cosa che ti verrebbe da suggerirgli è una manutenzione, ogni tanto. O, se è un innovativo, la ristrutturazione.
Ma appunto, questa specie di moda imitativa e anche uniformante non esiste più. Adesso gli hotel cercano di darsi nomi più pretenziosi, che spingono verso l’idea della felicità più esplicita o sfrenata, o verso l’idea del relax che nessuno capisce bene cosa sia. Gli hotel Miramare, anche se resistono a migliaia, portano a un immaginario anni Sessanta, o Trenta, o fine Ottocento. E soprattutto, per quanto riguarda gli anni del boom e delle vacanze d’agosto, quelle lunghissime di tutto il mese, rimandano a un albergo medio per famiglie medie e per viste medie. A prescindere dal numero di stelle, perché invece se andate a googlare vedrete miramari di ogni tipo, pezzatura e qualità.
Gli hotel Miramare fanno immaginare ancora adesso utilitarie che partono da sotto casa con ombrelloni sul tetto, canotti, bambini in canottiera che fanno la linguaccia alle auto appena sorpassate. Fanno pensare al tavolo solito nell’angolo a pranzo e a cena della pensione completa, con i tovaglioli sporchi di sugo che vengono rimessi anche a colazione dentro un anello con il tuo nome, e con bottiglie di vino bevute a metà riproposte ogni giorno fino all’esaurimento. Fanno pensare alla sabbia ancora tra le dita, all’odore inconfondibile dei mobili bianchi, alle saponette incartate con la scritta Miramare, ai riposini pomeridiani nella penombra che puoi anche non dormire, ma devi stare zitto e tenere gli occhi chiusi; fanno pensare a numeri vecchi di «Topolino» sul comodino; a conversazioni allegre e rispettose con la famiglia del tavolo accanto, commentando che i primi sono poco abbondanti e poco vari, ma che in fondo si mangia bene, e che siamo in vacanza e abbiamo proprio bisogno di riposarci (parliamo quindi di tempi in cui ancora non si diceva che avevi proprio bisogno di staccare la spina).
Le passeggiate sul lungomare, l’auto con i sedili infuocati perché da giorni sotto il sole, il giorno di pioggia immancabile che fa pensare allo spreco delle ferie e che invece porta un po’ di fresco e l’unico odore dell’estate che non si dimenticherà più per tutta la vita; i litigi ai quali ci si abbandona perché saranno per forza risanati dalla frase «vabbe’, ma siamo in vacanza», frase che viene pronunciata di nuovo e ogni volta che qualcosa costa troppo. E infine gli innamoramenti, i baci nel corridoio prima di entrare in stanza a dormire con i genitori oppure sulla spiaggia di notte per i più coraggiosi.
Gli alberghi Miramare (e tutti gli altri) sono belli soprattutto quando si ritorna l’anno dopo, anche se sarà più deludente del primo. Perché il cameriere ti saluta e ti porta la Coca-Cola perché si ricorda che ti piaceva, e un anno dopo alcune coppie sono cambiate, sono accadute tragedie e hanno avuto perfino il tempo di trasformarsi in una precaria serenità. Tutte cose che accadono, in modo meno vicino alla commedia all’italiana forse, ma anche se in altre forme, ancora oggi. È un’Italia che non c’è più nei modi in cui è stata raccontata e che riusciamo a ricordare, ma c’è ancora e arranca nella felicità di una settimana o quindici giorni, tutti insieme in ogni luogo di villeggiatura, con l’hotel Miramare, Miramonti o Miralago tutto prenotato, ma se si libera una stanza dopo Ferragosto glielo dico, però poteva chiamare prima, mi dispiace.
Però a fondamento di tutto questo c’è la passione e la comprensione per gli alberghi – che purtroppo non tutti mostrano di avere (sbagliando). Perché se uno non capisce la bellezza di appendere do not disturb alla maniglia della porta, il letto rifatto da qualcun altro, il caffè o l’aperitivo messo in conto alla camera (mi ricorda il numero?), la colazione a buffet in cui si mangia in modo spropositato mentre quello accanto abbronzato e ancora luccicante di doccia mangia lo yogurt con dentro delle cose strane che potrebbero essere anche pezzi di frutta, due che urlano di piacere dall’altra parte del muro alle sei di mattina, la signora delle pulizie che dice ripasso dopo (perché hai dimenticato di mettere do not disturb ), la tentazione di dare ogni cosa alla lavanderia (non solo i vestiti, tutto) e di mangiare per tutto il resto della vita un club sandwich sul letto insieme alla persona che ami – se uno non capisce la bellezza di tutto questo, allora la vista mare o monti o lago non serve a niente, è tempo perso.