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 2016  agosto 07 Domenica calendario

L’ennesimo processo al romanzo


Il romanzo, questo eterno malato, torna periodicamente ad infiammare gli animi, magari nella ciclica ventura dei premi e dello Strega in particolare. Come è successo anche nell’ultima edizione. Si protesta, ci si compiace, ci si indigna addirittura se si viene esclusi dalla cinquina finale. Diamo tempo al tempo, lasciamo che la cronaca, se ne è capace, diventi storia. Intanto consiglierei di non trascurare Lettere non italiane di Giorgio Ficara (Bompiani), pamphlet su una letteratura interrotta, quella italiana, appunto, ormai appiattita, dice l’autore, sugli standard di una lingua «planetaria, indefinitamente traducibile e deducibile dall’informazione». Insomma, secondo Ficara, si pubblicano molti libri brutti «che una diffusa precomprensione mediatica giudica belli e veri. Certi libri sono “brutti” non soltanto perché hanno rinunciato alla continuità con la lingua letteraria italiana, ma perché rispetto all’attuale pena del mondo scelgono un falsetto estetizzante, disumano, pigramente ricorsivo». E, seguita l’autore, citando Edward Said, «Se oggi i libri non costruiscono e non ricercano innanzitutto “campi di coesistenza”, a che cosa servono?».
Semplice, verrebbe voglia di rispondere, ad essere consumati, come un cibo o una bevanda, spesso dai sapori standardizzati e dunque confortevoli e riconoscibili in qualunque parte del mondo. La fortuna immensa dei gialli e dei thriller obbedisce, con qualche eccezione, alla regola del consumo, dei prodotti seriali: cerco l’emozione del delitto, del cadavere da scrutinare, ma più ancora il gusto dell’indagine ben sapendo che alla fine l’investigatore, dopo avermi sapientemente intrattenuto, mi regalerà una soluzione. Strano, se ci si pensa, che in un Paese come il nostro devastato dal terrorismo con tanti morti eccellenti e stragi spesso senza un autore definito, ci si dedichi al delitto fittizio, al massimo ispirato alla cronaca nera. Strano, ma forse persino ovvio: non vogliamo scoprire che l’assassino è il nostro vicino di casa, cioè si vuole consumare senza problemi e consumare, aggiungiamo, è un diritto che l’industria culturale ha trasformato in un dovere.
Il problema affrontato da Ficara, che lo sviluppa ragionando di letteratura e di critica con grande finezza, si potrebbe ridefinire così: siamo storditi dalla cronaca letteraria che ogni giorno propone nuovi scrittori al punto da aver creato una Anonima Romanzieri cui sovrintendono gli editor, ma quando dalla cronaca tentiamo di passare alla storia ci accorgiamo di avere in mano poco. Ragionando sulla narrativa contemporanea in margine ad una nuova edizione di Scrittori e popolo Alberto Asor Rosa ha parlato di scrittori-massa e notato la buffa circostanza per cui ogni romanzo si chiude con una lista di ringraziamenti. «Una volta non succedeva», commenta Ginevra Bompiani, «perché i libri gli scrittori se li scrivevano da soli». Credo sia un punto importante: fino a che punto uno scrittore è coinvolto nel proprio libro? Fa una scommessa vitale accettando che gli cambi la vita e la cambi anche ai lettori o si limita a confezionare una storia ben fatta che funzioni bene?
In questi giorni Alfonso Berardinelli ha riunito alcuni suoi interventi sul romanzo e in particolare su Don Chisciotte, Robinson e Zeno Cosini ( Discorso sul romanzo moderno, Carocci) facendo una premessa: Il Novecento è stato il secolo della teoria del romanzo: «la mia convinzione è che, oltre un certo limite, il romanzo, più che innovarsi, è arrivato a negare se stesso» e chi pensava, dopo Proust e Joyce e Kafka ad un punto di non ritorno, ha dovuto ricredersi: il romanzo è quella cosa là, con tanto di trama romanzesca, personaggi e colpi di scena. Lo ha detto con i suoi fortunatissimi romanzi anche Umberto Eco, ce lo sta dicendo Jonathan Franzen che in Purity rispolvera trame dickensiane, con agnizioni, padri che si perdono e si trovano, immense ricchezze rifiutate. La novità, semmai, è l’uso di Internet come luogo tenebroso (le foreste di una volta?) frequentato anche da “pirati” pronti a tutto. Il punto sollevato da Ficara però è un altro e mi ha fatto tornare in mente un’osservazione di Vincenzo Cerami che si preoccupava perché i giovani narratori leggevano soprattutto libri tradotti e dunque di minore impatto linguistico perché meno legati, come dice Ficara parlando, per esempio, di Arbasino e di Gadda, ad una nostra ricca tradizione.
Già negli anni Cinquanta Maurice Blanchot ( Le livre a venir) notava che «né Proust né Joyce hanno fatto nascere altri libri che somigliassero ai loro; sembravano non avere altro potere che quello di impedire le imitazioni e di scoraggiare i tentativi di emularli». Fatto grave nell’era dei prodotti in serie. Insomma quegli scrittori sono, e sanno di esserlo, un’ultima spiaggia. Blanchot riflette proprio sul futuro della letteratura: il fatto che lo faccia mezzo secolo prima di noi non gli toglie affatto né acume né autorevolezza, anzi –erano anni che non lo rileggevo – sembra scritto proprio per noi che cerchiamo in qualche modo una via d’uscita e forse abbiamo il torto di guardare le cose un po’ troppo da vicino. E nota Blanchot: «Se lo scrittore oggi, credendo di scendere agli inferi, si contenta di scendere per strada…».
Ficara conclude il suo libro con un omaggio, apparentemente fuori registro, a Giovanni Getto, ragionando di critica e preghiera e della altissima tensione spirituale che è la vera chiave di tutti i libri di quel lontano ma non dimenticato maestro. Forse è proprio l’assenza di tensione, non necessariamente religiosa, a dominare oggi il panorama letterario e non solo quello italiano.