la Repubblica, 7 agosto 2016
Breve ritratto di Paolo Genovese, che ormai non è più un perfetto sconosciuto
Non bisogna fare ciò che piace al pubblico, ma quello che il pubblico non sa ancora che gli piacerà. Forse il segreto del successo di Paolo Genovese e dei suoi film sta proprio in questa formula. «L’importante», aggiunge il regista, quarantanove anni, romano dell’ormai celebre quartiere Trieste, «è offrire sempre qualcosa di sorprendente, capace di spiazzare lo spettatore». In pochi anni ha inanellato una serie di incassi stratosferici, senza rinunciare alla qualità: quindici milioni di euro con Immaturi; dodici milioni con Immaturi 2, saga diventata anche una serie tv attualmente in lavorazione; più di dieci con Tutta colpa di Freud, fino ai trionfi di Perfetti sconosciuti, diciassette milioni di euro al botteghino e una lunga serie di riconoscimenti importanti e prestigiosi. «Al di là dei numeri», commenta Genovese, «con Perfetti sconosciuti credo di aver toccato qualcosa di profondo, che non era stato ancora condiviso, forse perché si tratta di qualcosa di scomodo. Il mio film ha fatto diventare il tema un argomento mediatico e, soprattutto sul web, si è scatenato un dibattito liberatorio, perché il cellulare ha cambiato il nostro modo di vivere, non solo moltiplicando tradimenti e adulteri, ma modificando in maniera determinante il modo di relazionarci con gli altri». Insomma l’idea era semplicissima e sotto gli occhi di tutti. «Il fatto è», riprende Genovese, «che nel cinema sono sempre le idee più semplici ad avere successo, ma a una condizione: essere raccontate da un punto di vista forte, altrimenti producono solo film banali. Perfetti sconosciuti non è un film sui cellulari, ma su un gruppo di amici che accettano di condividere il proprio inconscio attorno a una tavola. Tutti abbiamo una vita pubblica, una vita privata e una vita segreta e quest’ultima è nascosta nel cellulare, diventato la scatola nera a cui affidiamo la nostra intimità. Mettendo in comune quella scatola nera, i miei protagonisti scoprono di non conoscere affatto le persone che hanno accanto da una vita».
Per la produzione nazionale, dopo anni di commedie buoniste, evanescenti, assolutorie,
Perfetti sconosciuti ha segnato anche un ritorno a un cinema più cinico, come nella migliore tradizione della commedia italiana. Ma per Genovese non è stata quella la principale chiave del successo: «L’importante è rimanere coerenti allo stato d’animo del film. Si possono fare anche bellissime commedie leggere: con Immaturi, volevo comunicare la felice nostalgia del tempo passato. Un mio film precedente, La famiglia perfetta, al contrario, era distruttivo, perché raccontava le contraddizioni e le falsità domestiche.
Perfetti sconosciuti è una commedia, molto divertente, che lascia però in bocca un sapore amaro: se avessi optato per un happy end sarebbe crollato tutto. Lo sforzo è stato mettere lo spettatore a tavola con i personaggi, per questo sullo schermo appare spesso l’inquadratura di un posto vuoto. Per funzionare il film doveva essere assolutamente credibile, perciò ho preteso di girarlo in sequenza, le riprese si sono svolte in un appartamento e non in studio e abbiamo girato di notte, condizione necessaria per creare sul set quella particolare atmosfera. Ho ingozzato i miei attori di gnocchi, costringendoli ogni sera a mangiarli davvero e facendoglieli odiare per i prossimi tre anni. Col senno di poi devo ammettere che tutto questo è servito». Al cinema Paolo Genovese ci è arrivato quasi per caso: non è stato uno di quei cinefili che hanno trascorso la propria adolescenza nei cineclub e che, fin da bambini, sognavano di diventare registi. Dopo un normalissimo curriculum scolastico, concluso al Giulio Cesare, uno dei licei classici più famosi di Roma, e una laurea in Economia, ha iniziato a lavorare in pubblicità, alla McCann Erickson. Lì ha avuto l’occasione di incrociare Luca Miniero, futuro regista di Benvenuti al Sud, con cui, quasi per gioco, ha iniziato a realizzare dei corti. «La prima esperienza nel cinema è stata una tragedia. Avevamo realizzato un corto, Incantesimo napoletano, che fu invitato al Festival di Locarno. Emozionatissimi partiamo per la Svizzera ma, per un errore tecnico, il nostro film viene proiettato completamente fuori fuoco. Ci viene da piangere e, la mattina dopo, ripartiamo affranti. Arrivati a Roma, ci raggiunge la notizia che Incantesimo napoletano è stato premiato: la giuria aveva particolarmente apprezzato la messa in scena fuori fuoco, volutamente velata, nebbiosa, antirealistica. Quell’esperienza mi ha fatto capire il senso della relatività di questo lavoro, condannato alla soggettività più assoluta. Noi registi dipendiamo dal gusto degli altri: del pubblico, dei critici, persino degli attori, che possono decidere di partecipare o non partecipare a un film. Per questo, vorrei che i miei figli non lavorassero nel cinema, anche se, ovviamente, non farò nulla per impedirlo. Del resto è quello che hanno fatto i miei genitori, che mi avrebbero voluto avvocato o medico, ma non mi hanno mai ostacolato. Anzi sono stati e continuano a essere i miei più fanatici fan. Quando girai il primo film per le sale, la versione lunga di Incantesimo napoletano, riempirono di locandine tutti i negozi del quartiere, consapevoli che qualche decina di presenze in più o in meno avrebbe potuto fare la differenza. Ma anche oggi che, grazie a Dio, i miei film viaggiano su altri numeri, non hanno rinunciato a questa attività di promozione artigianale: quando esce un mio film continuano a distribuire locandine nei negozi e nei bar della zona dove abitano».
Di recente i genitori di Genovese hanno avuto spesso da fare perché, negli ultimi sette anni, il figlio ha girato altrettanti film e scritto una decine di sceneggiature, alcune delle quali affidate a colleghi. In questi giorni sta lavorando anche al nuovo film di Gabriele Muccino. «Ci siano incontrati a New York e mi ha proposto di scrivere insieme. Non sempre è facile lavorare per un altro regista, ma penso che con Muccino il feeling ci sia». Insomma un’attività intensa, da cinema d’altri tempi. «Determinata principalmente», confessa, «dalla difficoltà di stare lontano dal set». Forse anche per questo nella serie tv Immaturi, affidata alla regia di Rolando Ravello, per la prima volta Genovese apparirà in veste di attore. «È un piccolissimo cameo, sono un carabiniere che arresta Ilaria Spada (una delle protagoniste, ndr).
Ma per carità, non ho alcuna intenzione di intraprendere una carriera da interprete: è stato solo un divertente, piacevole diversivo. Questo lavoro bisogna farlo con allegria e io non mi sono mai sentito un artista bohémien che, per trovare l’ispirazione, deve ritirarsi solitario in riva al mare o in mezzo alla campagna. Vacanze di questo tipo servono per fuggire dal lavoro, non per cercarlo. Considero la scrittura cinematografica un lavoro da operaio, che deve essere sottoposto a regole precise. Sono molto rapido a scrivere, ma ho bisogno di rispettare orari prestabiliti: trovata l’idea, mi impongo otto ore di lavoro al giorno, con pausa pranzo, dalle 10 alle 19, altrimenti non esce niente. Lavoro nel mio studio a Campo de’ Fiori, perché a casa con tre figli adolescenti la concentrazione sarebbe più complicata. Ma quando l’idea si è fissata in testa, mi accompagna per tutta la giornata e mi capita di continuo, anche fuori dall’orario di lavoro, di aggiungere un particolare, una battuta, che nasce senza pensarci e che ho bisogno di fissare nella scrittura, altrimenti sono sicuro che la perderei. Così non è infrequente che, improvvisamente, mentre guido lo scooter, mi fermo, tiro fuori il tablet e mi metto a scrivere per strada un pezzo di dialogo. Tuttavia, il cinema è lavoro di gruppo e i miei film li ho sempre scritti insieme ad altri. Da qualche tempo ho cominciato a fare squadra anche con altri colleghi, pur non lavorando insieme a loro. Con Fausto Brizzi, con Edoardo Leo, Massimiliano Bruno e Rolando Ravello ci vediamo e ci scambiamo idee e copioni. Mi capita sempre più spesso di essere invitato da altri registi a visionare il primo premontato del loro film per qualche osservazione e consiglio. Insomma si comincia ad avvertire una sincera voglia di condivisione, anche se fra noi non c’è ancora quella comunità di intenti dei registi degli anni Sessanta che ha fatto grande il cinema italiano e che nasceva da un’affinità politica e sociale. Nel nostro caso, quella, è ancora assente».