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 2016  agosto 06 Sabato calendario

Alle origini dei Giochi olimpici, tra simboli e agonismo

Olimpici, sì, si capisce; ma perché si chiamano ancora “giochi”? Da quando, e sono passati due o tre decenni, è caduta definitivamente la barriera ipocrita del dilettantismo e ai giochi sono ammessi anche i miliardari del tennis, del football e del basket, quelle condizioni di gratuità, libertà e separazione dalla realtà che si ritengono tradizionalmente costitutive per ciò che chiamiamo “gioco” sono difficili da riconoscere nel colossale baraccone che ogni quattro anni catalizza l’attenzione del mondo. Del mondo, o almeno di quelle sue parti che nel frattempo non stanno guerreggiando, poiché la sospensione dei conflitti in vigore nell’antica Grecia purtroppo non fa parte di quanto il barone de Coubertin è riuscito a realizzare del proprio sogno, oramai più che secolare.
È vero che si svolgono in agosto, mese vacanziero per moltissimi. Ma è anche vero che i “giochi” sono in sé un lavoro non solo per gli agonisti, ma anche per un esercito di allenatori, massaggiatori, operatori della comunicazione, dirigenti, addetti all’ospitalità, forze di sicurezza, malintenzionati.
È vero che non c’è nessuna attività produttiva in sé implicata dal salto con l’asta o dall’evoluzione sulle parallele simmetriche o asimmetriche; ma è anche vero che lo sport è uno dei quattro items che Don DeLillo ha elencato tra i contenuti ossessivamente presente nell’agenda dei media («news e traffico, sport e meteo», Punto omega, Einaudi): qualcosa, con la cosiddetta “realtà” ha certo a che fare.
I teorici del gioco sono da sempre in qualche imbarazzo con lo sport, nel quale sembrano convivere con sin troppa disinvoltura l’aspetto ricreativo e l’aspetto di business. Ce la si può cavare con una formula: lo sport è il gioco a cui quantità considerevoli di non praticanti amano assistere e pagano per farlo. Ma Johan Huizinga, il primo pensatore davvero moderno del gioco, ha rovesciato la prospettiva e ha mostrato come proprio la dimensione del gioco sia costitutiva per quello che noi chiamiamo “civiltà”. Religione, letteratura, attività produttive, lingua hanno tutte un fondamento nel gioco; recentissimo, oltre che assai interessante, è il libro con cui il giurista Bruno Cavallone fra le tante altre cose conferma l’intuizione di Huizinga a proposito delle dispute giudiziarie (La borsa di miss Flite. Storie e immagini del processo, Adelphi).
Il gioco è al fondamento della civiltà e le Olimpiadi sono ancora giochi perché concentrano ed esprimono il massimo potenziale economico e spettacolare di agonismo e rappresentazione simbolica, continuando a rispecchiare aspetti cruciali della civiltà contemporanea.
Oggi, per esempio, le raffinate tecniche di riproduzione audiovisiva e la potenza delle reti di diffusione (dai network planetari a Internet) hanno spostato decisamente il focus dalle regole al modo di applicare, dalla grammatica del gioco alla sua fraseologia. C’è un momento in cui l’arbitro fischia o non fischia: seguono ripetizioni infinite di moviole, occhi di falco, dibattiti e inchieste su quell’attimo reiterato in eterno.
Oggi abbiamo la disputa internazionale sul doping e sulle squalifiche, o l’altrettanto increscioso sospetto che un gioco di ordine diverso (le scommesse) possa influenzare un po’ troppo i giochi dello sport: sono fenomeni che dimostrano lo stress a cui sono sottoposti i regolamenti, a favore invece delle performance.
Nell’universo del gioco questo lo si osserva almeno dall’esplosione dei giochi di ruolo che si è avuta negli anni Ottanta. Ancora più che nei videogiochi, arrivati subito dopo, nei giochi di ruolo non esistono regole vere e proprie, che si possano e debbano imparare prima. I limiti del comportamento del singolo giocatore emergono nel corso del gioco stesso, nella forma non di una applicazione ma di un’esperienza. Càpita lo stesso nelle società contemporanee dove, a partire dalla prevalenza delle dottrine liberiste e ultraliberiste, la regola ispira molto imbarazzo, soprattutto in chi deve farla rispettare, difenderla, riformarla, riaffermarla.
Una volta si diceva che la matematica non è un’opinione. Da anni abbiamo imparato che la finanza può essere creativa e che comunque un bilancio aziendale può contenere un tasso di ambiguità superiore rispetto a quello di un poema simbolista. L’esperienza fa aggio sull’applicazione, la prassi sulla norma, il play (il gioco giocato) sul game (il gioco come matrice regolamentare). La legittimità, se non addirittura la legalità, è divenuta materia contendibile. Non solo il gioco, allora, è a fondamento della civiltà: i modi di giocare continuano a rappresentare le forme esperienziali della civiltà stessa, ivi comprese le sue crisi e i suoi cedimenti.
Oggi che con Pokémon Go si parla di “realtà aumentata” andrà ricordato che Go non è la sigla di Giochi Olimpici, né un’allusione al nobilissimo gioco orientale, disciplina che richiede ai suoi maestri un apprendistato pluridecennale. Quel “go” è semplicemente un comando che fa uscire dalla propria cameretta, visto che il gioco si svolge nell’ambiente, cioè in qualsiasi ambiente, cioè nella cosiddetta “realtà” e non ha vere regole bensì procedure.
Le Olimpiadi sono giochi in senso tradizionale; ma, “aumentato” dalle dimensioni globali del loro impatto, il loro apparato è tanto vasto, articolato e potente da riuscire a manifestare persino le tendenze più contemporanee e meno tradizionali dei nostri modi di giocare. Alla fine, sono e rimangono giochi perché lì si fa sul serio, davvero.