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 2016  agosto 07 Domenica calendario

Nibali è caduto a Rio. Niente oro

 Vista rasoterra, con il casco sull’asfalto e la spalla che urla come mille macachi della foresta pluviale, Copacabana è uno schifo. Eppure trenta gradi arroventano l’inverno di Rio, la spiaggia è gremita di infradito e tanga, la cartolina è perfetta.
Vincenzo Nibali è quell’omino bianco e azzurro seduto sul ciglio della strada a gambe larghe e mani sulle ginocchia. Bici (che cambia colore con la temperatura) e morale a pezzi.
Ultima curva dell’ultima discesa di una gara con l’oro in bocca. Dalla collina di Vista Chinesa, lo strapiombo sul lungomare di Rio è un incanto. Nibalino in fuga insieme a due rivali che avrebbe potuto battere in volata, il colombiano Henao e il polacco Majka, è l’idea meravigliosa che il c.t. Cassani gli aveva messo in testa all’inizio dell’anno: punti al Giro d’Italia, ti sacrifichi al Tour, gloria eterna all’Olimpiade.
Undici chilometri al sogno di una vita. Tutto troppo bello per essere vero. E il destino, infatti, si riprende con gli interessi i crediti accesi in Francia nel 2014, quando gli altri andavano giù come birilli (Froome, Contador) e lo Squalo fendeva le ecatombi a naso dritto, lanciato verso Parigi. Ma questa è una corsa bella e brutale, accesa da quelle insidie di Rio (4000 m di dislivello, pavé, l’umidità del mare, il vento dell’Oceano) che già avevano chiesto lo scalpo di Porte, atterrato nelle reti dopo un dritto pauroso.
Nibali, Henao e Majka sono quel che resta di 237 km a eliminazione, Valverde è fuori gioco, Froome attardato, gli altri comparse nel piccolo capolavoro dell’Italia, che con Aru, De Marchi, Caruso e Rosa plasma l’asfalto rovente a immagine e somiglianza del capitano. E Nibali è lì, rispettoso delle consegne, lanciato verso l’oro che non vinciamo dal 2004 (Bettini), la consacrazione di una vita a due ruote.
Al passaggio prima, Aru tornato gregario gli aveva portato la borraccia, mettendolo in guardia: «Occhio che c’è poco grip». Ma non si può frenare un campione a briglia sciolta. In quella curva, l’ultima, vanno giù in due, prima Henao e poi Nibalino, già franato due settimane fa al Tour (19esima tappa), che in discesa avrebbe potuto fare la selezione e invece si rialza dolorante (spalla colpita con violenza, in serata la diagnosi, frattura della clavicola e una «prossimale» al collo: addio crono) e si accomoda a ciglio strada, mentre Majka il sopravvissuto vola verso le mille luci di Copacabana, sognando una caipirinha con una bella garota. Ma l’Olimpiade ha qualcosa in serbo anche per lui: dal gruppo degli inseguitori, dove c’è Aru, si staccano Van Avermaet e Fuglsang, lo specialista belga delle classiche e il gregarione di Nibali in Astana; lo agganciano a 1500 metri dall’arrivo, facendone scempio in volata. Oro belga, argento danese, bronzo polacco.
Niente per l’Italia di Cassani, generosa e volitiva più di Spagna, Colombia e Gran Bretagna, le altre multinazionali, uscita dal primo rettilineo di questa Olimpiade con il cuore infranto. Matteo Renzi se ne va costernato, Rosa e Cataldo si cambiano nel furgone rossi di sole e rabbia come aragoste, Cassani ha le lacrime agli occhi: «Ragazzi magnifici, corsa perfetta. Cos’altro posso dire?». Niente. Insieme al tramonto, su Copacabana cala il silenzio di Nibalino sedotto e abbandonato dai Giochi che avrebbe voluto portare a casa come un ultimo souvenir a cinque cerchi. Persino Rio, dallo spicchio della finestra della sala raggi, sa essere triste.