il Giornale, 7 agosto 2016
Strade puzzolenti, palazzinari e campagne elettorali. Gli antichi romani avevano già inventato tutto quello che c’è ancora oggi
Cosa si nasconde dietro la sigla SPQR? È quello che prova a spiegare l’omonimo saggio della storica britannica Mary Beard appena tradotto in Italia (Mondadori, pagg. 554, euro 25). La Beard che insegna a Cambridge e cura le pagine di antichità classica per Times Literary Supplement è studiosa serissima. Ma nel libro ha fatto un grande sforzo per dar conto al lettore della Roma che nessuno racconta. Quella che più esce dagli schemi che film, manuali e quadri ci hanno fatto entrare in testa. Giusto per dire, la Beard conclude il suo libro alla data del 212 d.C. quando la cittadinanza romana venne concessa a tutti i cittadini dell’Impero. Molto prima delle invasioni barbariche. Secondo la Beard, questo evento creò una frattura tale, parificando conquistati e conquistatori, che diede vita a qualcosa di diverso dalla Roma «classica». In questa pagina abbiamo sintetizzato alcuni dei numerosi temi del libro, puntando su quelli che più evidenziano i cives romani che non ti aspetti.
Principi del foro e catapecchie Marco Tullio Cicerone (106 a.C. – 43 a.C.) è noto ai posteri come il coraggioso console che mise alle strette il pericoloso Catilina. Chi ci ha fornito questa descrizione? Cicerone. Nei fatti, è probabile che i due personaggi non fossero poi così diversi tra loro. Di certo Cicerone, che non era di antica nobiltà romana, affiancava alle sue doti di oratore anche il senso degli affari. Riuscì a finanziare la sua campagna per il consolato, a differenza di Catilina che si indebitò, grazie alle sue doti di immobiliarista. Acquistava edifici fatiscenti e poi vi stipava all’interno più inquilini possibili in condizioni che oggi considereremmo disumane. In una lettera confida ad Attico che dalle sue Insule (casermoni) non cercavano di fuggire solo gli inquilini ma anche i topi.
Campagna elettorale Fallire l’elezione a una carica politica (molti dei voti si compravano) rischiava di portare il candidato sul lastrico. E per perdere le elezioni poteva bastare una frase detta male. Publio Cornelio Scipione Nasica stava stringendo mani nella sua corsa per diventare edile. Si trovò a stringere quelle callose di un lavoratore. Scherzando l’aristocratico gli disse: «Accidenti! Ma ci cammini su queste mani?». Gli elettori presero la battuta per disprezzo verso il popolo. Non lo votarono. Non erano male nemmeno i conti di lavanderia: il candidato si chiama ancora oggi così perché per fare bella impressione doveva girare con una toga bianchissima.
Beni mobili A Roma a portare i collari non erano solo i cani. Questo è quello che si leggeva sul collare di ferro saldato (pensato per rendere impossibile l’atto di levarselo) di uno schiavo: «Sono fuggito. Prendimi. Riportami dal mio padrone Zoninus e avrai una ricompensa». Rende bene l’idea di quale fosse la reale condizione degli schiavi di bassa condizione. Erano il 20% della popolazione.
Altro che marmo La Roma imperiale era una città di marmo, la Roma repubblicana per niente. Era una città enorme, potente ma puzzolente. Un ambasciatore greco del II secolo rimase molto contrariato nel cadere in una fogna a cielo aperto nel bel mezzo dell’urbe. Si ruppe una gamba e passò la convalescenza tenendo conferenze letterarie per un pubblico romano piuttosto stupito.
Guerra per bande Siamo abituati a sentirci raccontare la prima storia di Roma con gli occhi di studiosi antichi, come Livio (59 a.C. – 17 d.C), ma sulle prime guerre di Roma essi erano molto confusi. Le hanno raccontate come se fossero le guerre dei loro tempi ma in miniatura o come varianti della guerra di Troia. Cosa ci dicono gli studi più recenti? Erano guerre per bande comandate dai padroni di quelli che erano piccoli eserciti privati. Si dovette aspettare il 390 a.C perché i soldati ricevessero per la prima volta uno stipendio. Quindi niente legionari con la lorica come nei film. Per molto tempo l’esercito romano fu armato in modo eterogeneo. E il primo dominio romano non nacque con un progetto di conquista ma come esito di «risse fortunate».
Funerali e pubblicità Roma è stata la patria del diritto ma non del concetto di individuo. Contavano le famiglie. E quindi gli antenati illustri servivano a farsi pubblicità. C’è chi usava la tomba del padre panettiere posta a bordo via per segnalare che il forno era ancora attivo, altrettanto ben gestito dai figli. Tra i patrizi andava di moda utilizzare i funerali per ricordare l’importanza del proprio clan trasformandoli in celebrazioni gigantesche. Molti membri della famiglia si presentavano in quel caso indossando maschere di cera che riproducevano gli antenati morti.
Emancipazione e legnate La condizione della donna a Roma cambiò moltissimo nel corso dei secoli. Nel I secolo uno storico rimpiangeva i bei tempi in cui «Egnazio Metello prese una mazza e bastonò a morte sua moglie perché aveva bevuto del vino». Ma proprio mentre si rimpiangeva l’uxoricidio le potenti patrizie romane diventavano sempre più padrone della loro vita (e dei loro letti). Basti pensare a Clodia che Cicerone chiamava la «Medea del palatino». Perché le donne ottenessero di nuovo il livello di libertà che ebbero nella Roma dei cesari si è dovuto aspettare il XIX secolo.
Lusso e super ricchi Chi pensa che la disparità di reddito sia figlia del moderno capitalismo si sbaglia di grosso. Cicerone aveva un patrimonio di 13 milioni di sesterzi sufficiente a sostenere 25mila famiglie povere per un intero anno ma non era considerabile un super ricco. La casa di Crasso valeva da sola 200 milioni di sesterzi: un valore sufficiente a finanziare un esercito.