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 2016  agosto 08 Lunedì calendario

Ritratto al veleno di Paolo Gentiloni, ministro per caso

Agosto 2014: il ministro degli Esteri Federica Mogherini essendo stata designata all’incarico di Alto rappresentante della politica estera e di difesa comune dell’Unione europea e protraendosi più a lungo del previsto le trattative per la sua successione alla Farnesina, il Paese freme di indignazione. Ma come – ci si lamenta – la diplomazia di uno Stato come l’Italia che resta senza guida in un momento delicato come questo. Agosto 2016: il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni avviandosi a tagliare il traguardo del secondo anno da membro del governo Renzi e protraendosi più a lungo del previsto l’attesa per un qualsiasi segno di vita alla voce politica estera, il Paese fa due conti ed inizia a chiedersi se, visti i risultati, tanto non valesse continuare a fare senza.
UN UOMO CHIAMATO PIANO B
Va detto che non c’era bisogno di essere scaramantici per capire che l’avventura di Gentiloni alla Farnesina non fosse partita sotto i migliori auspici. Per dire, nella lista con cui Matteo Renzi si presenta al Quirinale per chiudere la pratica della successione alla neo-Lady Pesc il suo nome nemmeno c’è. Interessato unicamente a mantenere intatta la quota rinnovamento del proprio governo (e cioè a sostituire la giovane donna Mogherini con collega parimenti giovane e parimenti donna) senza intaccare l’ortodossia delle quote rosa, l’inquilino di Palazzo Chigi si presenta infatti al Colle con una short list su misura: l’ex capo dell’Unità di crisi Elisabetta Belloni, l’ex vicepresidente della Camera Marina Sereni e le due deputate alla prima legislatura Simona Bonafè e Lia Quartapelle (quest’ultima, si dice, sua vera carta coperta). Superfluo aggiungere come le vive perplessità del presidente della Repubblica Giorgio Napolitano convincano il capo del governo ad operare un ulteriore giro di orizzonte, dal quale uscirà il nome del più navigato e rassicurante Gentiloni. Ora, è chiaro che se sei diventato ministro solo perché in quel posto non si è potuta mettere – con tutto il rispetto – Lia Quartapelle, più di tanto da te nessuno si potrà aspettare. A maggior ragione se in vita tua ti sei occupato di tutto fuorché di politica estera. E lui non delude le attese: impatto soft sulla struttura ministeriale e understatement elevato a sistema, esercita il proprio mandato con un basso profilo che a volte dà l’idea di sconfinare nell’inazione. E quando deve per forza essere azione? Poco male, basta smussare e non sbilanciarsi. Così, al governo (per modo di dire) della Libia che oggi invoca l’intervento armato è l’unico che – attorniato da colleghi che si affannano a indossare l’elmetto gli uni e a mettere fiori nei cannoni gli altri – trova la forza d’animo per rispondere col più democristiano dei «Vedremo». Manco a farlo apposta, per arrivare ad un pompiere così c’è voluto un incendiario di livello. E che livello. Roma, primi ’70, liceo Tasso, palestra della meglio borghesia progressista. E per i giovani di quei tempi progressista significa quasi sempre extraparlamentare. Il rito che va di moda al Tasso è quello neostalinista del Movimento dei lavoratori per il socialismo di Mario Capanna, di cui l’istituto diventa ben presto la cellula romana. Dentro, c’è la crema dei figli di: il figlio di Kezich, il figlio di Cirese, la figlia di Codignola, la figlia di Scalfari, persino un nipote di Giolitti. E poi c’è lui, il valore aggiunto: il conte Paolo Gentiloni Silverj. Il rampollo dell’aristocrazia col sangue blu fin nel secondo cognome (la j finale rimandando a desuete grafie da antica nobiltà papalina) smanioso di redimere il blasone mediante militanza proletaria. Il giovin signore colto ed elegante che non disdegna di sporcarsi le mani con la rivoluzione. Il conte rosso, e i Savoia non c’entrano. Ad accrescerne il peso, soccorre poi l’albero genealogico. Dove alla voce trisavoli compare quell’Ottorino Gentiloni, eroe eponimo dei Patti siglati con Giolitti che nel 1912 riconsegnarono i cattolici alla politica attiva ponendo le basi per la fondazione del Partito liberale. Tanto il pedigree, che per il giovane rivoluzionario in loden si aprono tutte le porte: dal Mls passa al Pdup dove, sotto la guida di Luciana Castellina, inizia a prendere dimestichezza con la politica estera mediante fondazione e confezione della rivista Pace e Guerra. A propiziare il salto di qualità sarà però un’altra rivista, Nuova Ecologia, dove approda in qualità di direttore a metà anni ’80 su chiamata del duo Chicco Testa – Ermete Realacci, al tempo capi di Legambiente. Nei dieci anni passati al timone del settimanale, Gentiloni compie quella maturazione in senso rosso-verde che, di lì a poco, lo renderà uno dei protagonisti naturali della nouvelle vague della sinistra anni ’90, caratterizzata proprio dall’innesto di nuovi radicalismi ed ambientalismi sulla preesistente ortodossia. Merito anche dell’incontro che gli cambia la vita. È in questo periodo infatti che Gentiloni allaccia i rapporti con un arrembante ex segretario dei Radicali che ha appena fondato un partitello di sinistra (i Verdi arcobaleno) e che ha grandi ambizioni. Quando, pochi anni dopo, il giovane Francesco Rutelli conquista il Campidoglio nelle prime elezioni dirette della storia è proprio a Gentiloni che si rivolge per affidargli il compito di portavoce dell’amministrazione prima e di assessore al Giubileo poi. Così, il nostro entra a far parte della ormai mitologica squadra dei “Rutelli boys” e da lì si attrezza per continuare la propria scalata. Che si consumerà per anni sempre e comunque nel segno di Rutelli: è al suo fianco nella campagna elettorale da candidato premier nel 2001, è con lui quando mette insieme gli eredi di sinistra della diaspora Dc fondando la Margherita, è con lui quando – vinte per il rotto della cuffia le elezioni del 2006 – c’è da mettersi il vestito buono e da andare a giurare al Quirinale.
MINISTRO ANTI-CAV
Per lui, Romano Prodi ha scelto il ministero delle Comunicazioni. Che, in quei ruggenti anni Zero, a sinistra significa trincea ultima e invalicabile contro il berlusconismo imperante. Ed il nostro ci si butta con l’entusiasmo di un ragazzino, passando mesi a congegnare una riforma del sistema radiotelevisivo oltre il draconiano e dal dichiarato intento punitivo nei confronti del Biscione. Il bello è che sia lui sia più o meno chiunque altro sanno alla perfezione che tale legge ha zero possibilità di essere approvata (la maggioranza essendo talmente risicata da garantire a stento l’ordinaria amministrazione, figurarsi le riforme epocali). La battaglia intorno alla legge diventa pertanto questione di puro teatrino, trascinandosi tra alti e bassi (picco assoluto il momento in cui Sandro Bondi annuncia lo sciopero della fame contro il ministro cattivo che vuole mandare sul lastrico l’allora ancora amato Cav) fino alla fine della legislatura. Tramontata l’era dell’Unione ed archiviata la non esaltante stagione 2008-2013, sul centrosinistra si abbatte il ciclone Renzi. E Gentiloni, preso atto dell’esaurirsi della spinta propulsiva del mentore di una vita Rutelli, si attrezza per accreditarsi agli occhi del nuovo sovrano del Pd. L’occasione per fornire la prova di fedeltà arriva con le primarie per il candidato sindaco di Roma nel 2013: serve un candidato in quota Renzi che accetti di andare a fare il vaso di coccio tra il campione della Ditta David Sassoli e l’outsider con in poppa il vento della società civile Ignazio Marino. Gentiloni accetta di buon grado, e procede a farsi massacrare ai gazebo (arriverà terzo prendendo sì e no il 15%). Batosta dolorosa, ma feconda. Il seme del renzismo è stato piantato e adesso c’è solo da aspettare che cresca. Un annetto di maturazione ed arriva la chiamata alla Farnesina. Dove l’ex gruppettaro, ex pacifista, ex radicalone rosso-verde si insedia in qualità di ministro moderato e riequilibrante al centro un governo altrimenti troppo sbilanciato a sinistra. Contrappasso curioso, ma non troppo: nei mesi passati alla guida della diplomazia Gentiloni si conferma, come detto, maestro del basso profilo e del restare sotto le righe. Fino alla rovente estate 2016, con l’emergenza migratoria fuori controllo e i venti di guerra che tornano a soffiare sul Mediterraneo. Ma allora l’Italia in Libia interviene o no? «Vedremo». Tanto mica c’è fretta.