La Gazzetta dello Sport, 8 agosto 2016
Cronaca del Mancini-bis, una grande illusione
La seconda avventura interista di Roberto Mancini era iniziata ufficialmente alle 17,29 del 14 novembre di due anni fa, ed era stata annunciata via twitter, come si usa nel calcio del terzo millennio. Il pareggio in casa 2-2 con il Verona, che seguiva la sconfitta 2-0 a Parma aveva segnato il punto di non ritorno nel rapporto tra Walter Mazzarri e il club nerazzurro. C’era la sosta per le nazionali ed Eric Thohir ne aveva approfittato per richiamare il tecnico che sulla panchina nerazzurra dal 2004 al 2008 aveva vinto 3 scudetti, 2 Coppe Italia e 2 Supercoppe italiane. L’annuncio del contratto, due anni e mezzo, era dunque avvenuta sul profilo ufficiale del club sul social dell’uccellino: «Roberto Mancini nuovo allenatore dell’Inter». E poi un hashtag, #BentornatoMancio, quasi un tentativo di ripristinare subito l’antica familiarità. E lui aveva ricambiato, sempre su twitter: «Dopo una nuova stimolante sfida, sono contento di riabbracciare i tifosi dell’Inter». E alla Pinetina, nel giorno della presentazione, era stato introdotto in inglese, quasi a sottolinearne il profilo internazionale.
IL PRIMO ANNO Gli allenatori subentrati a stagione iniziata, spesso godono nei primi mesi di un credito quasi illimitato. E tra l’Inter e Mancini era logico attendersi una nuova luna di miele, come due fidanzati che si ritrovano dopo anni e riscoprono il gusto di stare insieme. Invece quel feeling spezzato anni prima non si è mai ricucito. Il Mancio aveva ereditato da Mazzarri una squadra al nono posto in classifica, con 16 punti in 11 giornate, e non è mai riuscito davvero a invertire la rotta. Se il suo ritorno fosse coinciso immediatamente con un chiaro rilancio forse la storia sarebbe andata diversamente. Invece l’era del Mancio bis nel primo anno è stata un continuo stop and go: due sconfitte, poi 5 partite positive, poi altri due capitomboli.
LITIGI E MERCATO Ma ancora peggio era andata nei rapporti con la squadra. Il 6 gennaio nel post partita di Juventus-Inter c’era stata una clamorosa lite con Osvaldo, di quelle fragorose, al limite del contatto fisico. E per quella vicenda Mancini aveva ricevuto il Tapiro d’Oro. Ma sembravano ancora problemi inevitabili, scosse di assestamento nel rapporto con uno spogliatoio non proprio facilissimo. La soluzione era stata individuata nel mercato, con l’arrivo a gennaio di 4 giocatori fortemente voluti da lui: il tedesco Podolski, lo svizzero Shaqiri, Davide Santon e il croato Marcelo Brozovic. Il salto di qualità era affidato soprattutto ai primi due e il Mancio ci credeva eccome. «Dobbiamo migliorare la squadra – aveva detto dopo gli acquisti – perché questa non è ancora la mia Inter, ma ci vuole tempo e a volte dobbiamo sopportare delle giornate difficili. Sono convinto che l’Inter tornerà a lottare per il campionato». Non in quella stagione, ovviamente. Anzi,il bilancio finale parlava di un solo gradino scalato dall’Inter dopo il suo arrivo, ma l’ottavo posto rispetto al nono del novembre precedente, con esclusione dalle coppe europee, non poteva essere considerato soddisfacente.
IL SECONDO ANNO Il secondo anno doveva essere quello del rilancio, quello del ritorno in Champions, obiettivo esplicitato dalla dirigenza e dallo stesso Mancio. In estate erano arrivati, tra gli altri, Kondogbia, Felipe Melo, Perisic, Murillo, Miranda. La partenza della scorsa stagione può essere considerata l’unico momento davvero felice del ritorno di Mancini all’Inter. Nelle prime 5 giornate erano arrivate altrettante vittorie, 4 per 1-0 e una per 2-1, e il primo posto con 3 punti sulla seconda. Il gioco non era proprio spettacolare, ma quelle vittorie di misura sembravano il marchio di fabbrica di un prodotto di successo. «Gioca male e vince, immaginate che cosa potrà fare quando giocherà anche bene», era l’opinione diffusa. Una magnifica illusione, travolta dalla Fiorentina con un fragoroso 4-1 a San Siro. E la stagione è tornata a essere a singhiozzo, come quella precedente, con una sequenza imperdonabile di occasioni sprecate per dare l’assalto al terzo posto. E anche nel secondo anno i segnali di nervosismo sono stati numerosi: prima di Natale una litigata con Jovetic, il 19 gennaio quella più eclatante al San Paolo con Maurizio Sarri per la frase omofoba del tecnico napoletano, il 31 gennaio il dito medio rivolto ai tifosi del Milan alla fine di un derby perso. Un dito seguito da squalifica e da un altro Tapiro. Il 4° posto finale con il miraggio della Champions che si avvicinava e poi si allontanava più che dell’Europa ritrovata aveva il sapore dell’occasione sciupata.
L’EPILOGO Il resto è storia delle ultime settimane. Un mercato del quale il Mancio era insoddisfatto e nel quale non si è sentito coinvolto quanto avrebbe voluto e, soprattutto, la sensazione di non avere più referenti con una nuova proprietà non pronta a varare un progetto, tanto da avere lasciato le deleghe ai vecchi dirigenti. Il precampionato è stato una via crucis, una sola vittoria contro il modesto Real Salt Lake, 2 pareggi con gli austriaci del Wattens e l’Estudiantes e 4 sconfitte con Cska Sofia, Psg, Bayern e Tottenham. Sconfitte sempre più pesanti, come il clima che si è creato. Un Mancio triste con la sensazione divenuta certezza che lui fosse ormai un corpo estraneo, un peso da sopportare fino alla scadenza del contratto. Non sarà così, il nuovo divorzio di un rapporto mai rifiorito è arrivato prima.