La Stampa, 8 agosto 2016
In Italia le donne guadagnano il 10,9% in meno dei colleghi maschi
La conferma arriva da tutti gli osservatori: le donne italiane guadagnano meno degli uomini. Secondo il Gender Gap Report 2016 le donne guadagnano il 10,9% in meno degli uomini. Rispetto al 2014, il divario delle retribuzioni è anche aumentato: gli stipendi degli uomini sono saliti dello 0,6%, quelli delle donne hanno subito un taglio dello 0,7%.
«Le differenze non riguardano come negli Stati Uniti la stessa mansione, in Italia per legge la retribuzione base deve essere uguale», precisa Gigi Petteni della segreteria confederale della Cisl con delega sul mercato del lavoro. Da un punto di vista formale, insomma, tutto bene. I problemi iniziano subito dopo, quando gli uomini riescono a fare gli straordinari perché non devono tornare a casa a occuparsi della famiglia e quando le stesse aziende e i capi decidono di affidare sempre più compiti agli uomini e non alle donne che restano relegate in settori o ruoli dai salari nettamente inferiori.
«Le donne sono perfettamente tutelate dalle leggi italiane e dai contratti ma la differenza di retribuzione si crea per altri motivi: l’organizzazione del lavoro è maschile, penalizza le donne che tendono a essere meno presenti sul lavoro perché si occupano di più del lavoro di cura della famiglia e quindi oltre a guadagnare di meno finiscono anche per avere una pensione inferiore», spiega Tiziana Bocchi della segretaria confederale della Uil con delega sulla contrattazione.
Le leggi che dovrebbero impedire discriminazioni insomma ci sono e lo conferma il fatto che nel settore scuola non esistono differenze retributive. «Abbiamo i contratti, sarebbe impossibile immaginare una retribuzione diversa tra uomini e donne», avverte Domenico Pantaleo, segretario generale della Flc-Cgil.
La differenza però di fatto esiste e vale 3620 euro all’anno. Se un uomo infatti guadagna mediamente 29.985 euro lordi, la retribuzione di una donna è invece di 26.725 euro. Ma è una differenza che è «calcolata sulla «retribuzione oraria lorda complessiva, quindi le donne guadagnano di meno perché lavorano di meno», avverte Tiziana Bocchi.
L’eurodeputata del Pd Alessia Mosca, firmataria insieme a Lella Golfo della legge sulle quote rosa, spiega che sulla disparità retributiva pesa un elemento di carattere culturale. «Si tende ancora a privilegiare la presenza maschile su quella femminile per paura della maternità – spiega – Inoltre le donne sono più reticenti a contrattare e pretendere la giusta remunerazione». Pesa anche il numero ridotto di ore di straordinario svolte. Un aiuto arriva dalla «figura dello Smart Working (il lavoro a distanza senza obbligo di essere presenti sul luogo di lavoro) introdotto da una mia legge: la retribuzione non varia a seconda delle ore lavorate ma dei risultati raggiunti».
Monica Gregori, deputata di Sinistra e Libertà, ricorda il lavoro in Parlamento per combattere le discriminazioni: «Non ho votato il Jobs Act ma contiene alcuni elementi che permettono di fare un passo avanti. Purtroppo c’è ancora molto da fare: ad esempio se una donna incinta lavora in una cooperativa si può essere licenziata senza motivo. E anche se fa causa non otterrà più il posto di lavoro. Le donne restano un elemento debole del mercato del lavoro. Sono quelle che portano a casa il secondo stipendio e tendono ad accettare qualsiasi tipo di mansione e di retribuzione e i datori di lavoro ne approfittano. Il governo dovrebbe intervenire su questo come dovrebbe intervenire sul caporalato, una piaga ancora troppo diffusa».