Corriere della Sera, 8 agosto 2016
«Se il popolo vuole la pena di morte io approverò» dice Erdogan trionfante, davanti a una folla rossa
«Abbiamo sorpreso il mondo. Ora dobbiamo trarre il meglio da questa nostra ritrovata unità». Trionfante, davanti a una folla rossa di bandiere e bandane, il presidente turco Recep Tayyip Erdogan ha celebrato ieri nella «sua» Istanbul la vittoria della democrazia di regime sul fallito golpe del 15 luglio scorso. E ha colto l’occasione per lanciare l’ennesima sfida a un’Unione Europea sempre più lontana, che da giorni invoca il rispetto dello stato di diritto. «Se il popolo vuole la pena di morte, i partiti seguiranno la sua volontà – assicura Erdogan —. Io l’approverei se il Parlamento votasse per introdurla».
Parla a braccio, con la camicia sbottonata e un’inconsueta calma, rispetto ai comizi delle ultime tre settimane. Al suo fianco, la first lady Emine in bianco assoluto: pantaloni, tunica e l’immancabile velo. Quasi tutte le donne hanno il capo coperto, nella piazza davanti al Mar di Marmara, dove i manifestanti tracimano ben oltre le reti di sicurezza, riempiendo le strade adiacenti e buona parte del quartiere portuale di Yenikapi.
Più che una manifestazione, il «Raduno per la democrazia e i martiri» sembra un abile mix fra un concerto rock e un’adunata movimentista. C’è il palco a T e le luci laser, e poi milioni di bandiere e cappellini, gentilmente offerti dagli organizzatori ai partecipanti. Erano oltre un milione, secondo le agenzie internazionali. Molti di più per la turca Anadolu. Gran parte venivano da fuori, scortati fino all’antica Costantinopoli grazie a un imponente dispiegamento di traghetti e bus gratuiti. Erdogan li arringa con la maestria di un oratore navigato: «Voi popolo della Turchia che vi siete adunati oggi provenienti da 81 province, voi oggi siete guardati da tutto il mondo e ancora una volta io voglio ribadire che il 15 luglio questo popolo ha difeso la propria nazione e ha salvaguardato la propria indipendenza» dice. Alle spalle, la sua gigantografia e quella del padre fondatore della Turchia laica, Mustafa Kemal Atatürk. Poi parte l’attacco al movimento di Gülen, presunto mandante del golpe, «un’organizzazione terroristica».
È l’apice di una mobilitazione popolare che ha riempito, fin dall’indomani del golpe, le piazze e le strade di Istanbul e di molte altre città turche. Questa volta, però, il presidente è riuscito a convincere anche l’opposizione: parla il leader del partito ultranazionalista, Devlet Bahçeli, e il repubblicano Kemal Kiligdaroglu, che timidamente ricorda che «la politica non si deve fare nelle moschee, nei palazzi di giustizia o nelle caserme». Non invitati, invece, i filocurdi del Partito democratico del popolo. Tra gli ospiti vip, viene inquadrato spesso il capo del Dipartimento per gli affari religiosi (Diyanet), Mehmet Görmez, che nella notte del golpe ordinò alle moschee di mobilitare i fedeli. È il braccio islamico del governo. Così lontano dalla Turchia di Atatürk.