Corriere della Sera, 8 agosto 2016
In mare con il comandante della Guardia costiera
Il «mare formato», ovvero proibitivo per affrontare traversate, lascia respirare per qualche ora gli uomini della Guardia costiera e il loro comandante generale, l’Ammiraglio Vincenzo Melone. Nella sala operativa che monitora senza sosta l’immensa distesa di mare che gli 11 mila uomini del corpo devono controllare e solcare, non ci si illude, però, che gli interventi possano rallentare più di tanto. Il perverso intreccio di crudeltà e disperazione rende ormai il flusso di migranti pressoché continuo.
«Il trend di arrivi – spiega Melone – è lo stesso dello scorso anno, quando abbiamo coordinato operazioni che hanno portato al salvataggio di 150.000 persone. Ci sono però almeno un paio di differenze: l’arrivo di unità da porti dell’Egitto e imbarcazioni sempre più arrangiate, pericolose. Si è passati ormai a gommoni che trasportano 100-120 persone e che hanno un unico tubolare, che si rompono, quindi, facilmente, causando tragedie. Ecco quindi l’importanza di intervenire sempre con tempestività quando arrivano le chiamate di soccorso. Ultimamente stiamo monitorando anche il fenomeno di barchini piccolissimi che partono dalla Libia con solo 10-15 persone ed è evidente che non hanno praticamente alcuna sicurezza».
Del resto, nei primi 7 mesi di quest’anno, il numero di migranti morti è cresciuto del 26%.
«Questo è vero, ma vale per situazioni nelle quali non siamo potuti intervenire perché in tutte le operazioni attive le cose sono andate diversamente anche perché chiamiamo a raccolta, oltre ai nostri, tutti i mezzi disponibili in un’area: Marina militare, Guardia di finanza, mezzi navali militari di altri Paesi, mercantili, pescherecci, rimorchiatori. Queste operazioni sono sempre state effettuate con successo e parlo di centinaia e centinaia di interventi».
Lei prima ha fatto riferimento alle partenze dalla Libia. Ritiene che l’intervento aereo che si prospetta a Sirte possa cambiare le cose?
«Spero che il flusso possa arrestarsi. È ovvio che se la situazione complessiva in Libia dovesse essere maggiormente governabile, l’attività dei criminali che gestiscono questo traffico potrà essere combattuta più facilmente».
Nella vostra esperienza, queste partenze sono gestite solo da bande organizzate o negli ultimi tempi esiste una precisa strategia Isis per incentivare il flusso e destabilizzare il nostro Paese?
«Fermo restando che dietro le partenze c’è sempre un’organizzazione criminale, non escludo che l’Isis utilizzi questo strumento per destabilizzare».
Nell’attività di salvataggio di un numero così elevato di migranti trovate sempre il sostegno di unità navali civili e militari di altri Paesi o i distinguo in sede politica si riflettono anche in mare?
«In mare c’è solidarietà: vige la legge che stabilisce che chi è in difficoltà va soccorso. Quindi c’è la collaborazione di tutti. Grazie anche alle operazioni “Mare Sicuro” e dell’agenzia Frontex che hanno portato nuovi mezzi siamo più strutturati e quindi evitiamo di chiedere, per quanto possibile, il supporto di navi mercantili. Il che evita di infliggere danni economici al traffico commerciale. Devo dire, però, che ogni volta che abbiamo chiamato la risposta è stata immediata».
Sotto il profilo politico, anche nel nostro Paese, ci sono posizioni diverse: chi appoggia pienamente l’attività di salvataggio anche oltre le nostre acque e chi invece vorrebbe interventi più limitati. Questo sarebbe possibile sotto il profilo puramente operativo?
«Giriamo il problema: se noi non andiamo, quelle persone muoiono perché la chiamata di soccorso o la scoperta che riusciamo a fare grazie al nostro sistema avanzato, ci consente di intervenire e non possiamo non farlo. È un obbligo. Ora, tenuto conto che in Libia c’è una situazione tale per cui il governo centrale non può garantire gli interventi in mare necessari, gli interventi oltre le nostre acque diventa un obbligo di legge internazionale».
Quindi, anche parlare di blocchi navali non ha senso…
«Il problema è assai complesso: io mi occupo della parte tecnica, operativa e mi astengo da giudizi di ordine politico. Io mi trovo di fronte ad un problema e cioè una persona che corre il rischio di perdere la vita. E poiché il mio compito è quello di salvarle, le vite, di questo mi occupo».
Vista la forte crescita della vostra attività, il governo vi ha messo in grado di operare al meglio in termini di uomini e di mezzi?
«Siamo ben strutturati per fare questo servizio: il corpo ha un’esperienza di 150 anni, queste cose non si inventano, entrano nel Dna e noi ce l’abbiamo. Ma per fare questo, servono certamente i mezzi e gli uomini, ma serve anche la passione, il cuore. Il coraggio, anche: talvolta, quando il mare è in tempesta e tutti rientrano, noi usciamo in mare con i nostri mezzi più tecnologici. Abbiamo motovedette di 18 metri autoraddrizzanti con equipaggi di 5 persone, in grado di uscire con mare forza 8. Detto questo, una cosa voglio sottolineare e cioè che è il sistema-Paese che sta affrontando l’emergenza in modo giusto perché non dimentichiamoci che in mare noi coordiniamo ma abbiamo la partecipazione di tante realtà, poi però li portiamo a terra. E qui penso all’enorme impegno di tanti sindaci, prefetti, forze dell’ordine, onlus e gente comune. È il Paese che sta rispondendo, pur con le tante difficoltà, in modo idoneo e speriamo che questo sia di esempio per gli altri Paesi».
In queste sue parole si percepisce l’amarezza di chi, salvate tante vite, vorrebbe maggior sostegno da parte di tutti i governi…
«Diciamo che non può non esserci riconosciuto il ruolo centrale che stiamo avendo ormai da anni di fronte a quella che è un’emergenza umanitaria epocale. Parliamo di movimenti biblici in tanti Paesi di più continenti. Cambiano situazioni e rotte, ma l’emergenza cresce».
A proposito di rotte, come mai se ne aprono di nuove dall’Egitto, un Paese dove un governo centrale c’è ed anche molto robusto?
«Abbiamo milioni di migranti da molti Paesi che premono e cercano strade sempre nuove. E ci sono fattori, interessi politici che mutano su uno scacchiere che non riguarda più soltanto l’Africa e l’Europa, ma il mondo intero».
Cambiamo registro, parliamo delle altre vostre attività: la vigilanza sul diporto, la tutela ambientale, il rispetto delle regole sulla pesca…
«Diciamo che il Corpo, che è lo Sportello unico del mare, è un esempio di spending review perché è la sintesi sul territorio di tre ministeri: Infrastrutture e Trasporti, Ambiente e Politiche Agricole. Ecco perché le Capitanerie di Porto rappresentano tre ministeri e contribuiscono, oltre a far risparmiare risorse pubbliche, a facilitare l’attività di chiunque operi in mare o con il mare abbia a che fare a qualsiasi titolo».
Possiamo dire che navigare nei nostri mari è più sicuro che in passato?
«Certamente. La sensibilità di chi naviga è progressivamente migliorata, grazie anche ad una maggiore comunicazione, alla prevenzione, alla collaborazione tra tutti coloro che con il mare hanno a che fare, alla presenza di 3 mila uomini sulle spiagge e in mare per garantire tranquillità e sicurezza».