La Stampa, 5 agosto 2016
Sull’amore radicale
Come deve essere l’amore per un radical? Naturalmente radicale, senza se né ma. Perché, in effetti, non c’è nulla di più sovversivo dell’amore, che, quindi, o è rivoluzionario o niente. Un amore talmente radicale, però, da spaventare perfino i rivoluzionari di professione.
Lo leggiamo ne La radicalità dell’amore (DeriveApprodi, pp. 144, euro 15) di Srécko Horvat, un trendy filosofo croato (classe 1983), a sua volta in possesso di ineccepibili credenziali radicaleggianti, essendo tra i compagni d’avventura di Yanis Varoufakis nel movimento DiEM25 e tra i collaboratori di Slavoj Zizek (del quale è uscito da poco Che cos’è l’immaginario, Il Saggiatore).
Comunismo minimo
Assente l’amore dalla scena delle fiammate rivoluzionarie di questi ultimi anni (da piazza Taksim a Zuccotti Park, da piazza Tahrir a Hong Kong), constata con amarezza il giovane studioso neo-engagé, che sente quindi l’esigenza di ripercorrere le burrascose relazioni tra la spinta propulsiva dell’erotismo e la sinistra rivoluzionaria e antagonista del Secolo breve. E dunque, con buona pace dell’ipergoscista Alain Badiou per il quale esiste una naturale consonanza tra la rivoluzione e la relazione sentimentale (che sarebbe una manifestazione di «comunismo minimo»), in verità grande è sempre stata la confusione teoretico-amorosa sotto il cielo del radicalismo.
Qui non c’è (giustamente) De Sade, che con la libertà del desiderio nulla c’entra (mentre ha moltissimo a che fare con la violenza e la prevaricazione), e c’è, invece, chi la esaltava e le dava seguito (seppure con qualche sofferenza interiore) come la coppia aperta formata da Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir. E c’è chi, come Ernesto «Che» Guevara (divenuto un sex symbol planetario), viveva faticosamente una tensione irrisolta tra l’autodescrizione come fredda macchina umana al servizio del supremo ideale politico e la realtà dell’essere una calda macchina desiderante, che rubava momenti di intimità amorosa alla clandestinità; in ogni caso, alla fine, fra il trasporto romantico verso la seconda moglie Aleida March e la rivoluzione optò per quest’ultima (lasciando alla prima i figli da allevare).
Il potere
Altro ancora il discorso per le rivoluzioni arrivate al potere, come quella d’Ottobre in Russia e quella islamica del 1979 in Iran (che, sulla base di un gigantesco abbaglio, venne salutata trionfalmente da molta ultrasinistra europea). Lenin e Khomeini, sottolinea anche Horvat, condividevano la stessa mentalità – e, per inciso, in tal senso fu profetico una volta di più George Orwell (campione di una sinistra autenticamente libertaria) quando nel suo 1984 inserì una lega giovanile anti-sesso, un ministero dell’Amore e una psicopolizia (molto simile alle polizie iraniana e saudita «per la promozione della virtù e la prevenzione del vizio»).
Dal momento che la rivoluzione identifica la finalità e il bene sommo, tutto va sacrificato alla sua vittoria: nel caso dei bolscevichi si trattava di realizzare il futuro (ossia il progresso) nel presente, mentre per gli ayatollah il futuro continua a essere quello che si compie dopo la morte, ed ecco quindi che il khomeinismo ha impiantato un tentacolare apparato di promozione di una pulsione di morte che ha rimosso quella libidinale da ogni ambito della vita pubblica.
Doppia vita
L’esito è, ovviamente, che sotto i regimi rivoluzionari tutti hanno una doppia vita. Anche se Lenin, secondo Horvat, era a conti fatti un «inguaribile romanticone» (e possessivo), da cui la sua incapacità di capire gli avanguardistici ragionamenti sull’amore libero – ovvero, opposto a una concezione proprietaria dell’altra persona – fatti dall’ala femminista del bolscevismo incarnata da Aleksandra Kollontai e Inessa Armand (la quale, per di più, del leader rivoluzionario fu il grande amore segreto).
Si arriva così alla rivoluzione «chiave», politicamente fallimentare ma sessualmente dirompente. Quella del Sessantotto, vera cartina di tornasole di questa problematica dialettica tra desiderio e devozione totale all’impegno politico. Emblematica in materia fu la querelle che si sviluppò sulla promiscuità vigente in seno alla «Kommune 1» di Berlino, la prima comune tedesca nonché il bastione della «guerriglia allegra» e del filone di liberazione sessuale influenzato dalle tesi di Herbert Marcuse e Wilhelm Reich, con tanto di testimonial: Uschi Obermaier, la «faccia più bella del ‘68» (super-«compagna» e pure super-groupie di «soffici letti» di rockstar come Jimi Hendrix, Mick Jagger e Keith Richards, e in seguito modella e attrice).
Liberati contro asceti
Duramente contro era Rudi Dutschke, per il quale la relazione aperta e lo scambismo dei partner rappresentavano l’equivalente delle transazioni su cui si fonda il capitalismo: dunque da proibire, proclamando, al contrario, il dovere del militante rivoluzionario di attenersi a un certo ascetismo e rigore. Arriviamo così direttamente ai giorni nostri, poiché l’homo ludens e l’edonismo di derivazione sessantottina, sostiene una parte del pensiero radical (come il filosofo Byung-Chul Han nel suo Eros in agonia, Nottetempo) vengono «sussunti» dal neoliberismo, e l’auspicata emancipazione sessuale degli individui si converte in mercificazione e messa a profitto, biopolitica e bioeconomica, dei loro corpi. Insomma, la nemesi. E la chiusura del cerchio. Il libero amore si tramuta nel poliamore teorizzato (tra gli altri) da Jacques Attali, e la repressione sessuale della borghesia otto-novecentesca cede il passo alla disinibizione postmoderna predicata dalla superclasse globale. Giunto a questo punto, allora, il rivoluzionario si vede costretto a ripassare dal «Via» (come nel Monopoli) per domandarsi ancora una volta (e leninisticamente): «Che fare?».