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 2016  agosto 05 Venerdì calendario

Clint Eastwood sta con Trump

L’Isis? I milioni di posti di lavoro esportati in Asia? L’infinita scia di sangue delle sparatorie fuori controllo che hanno profanato perfino un asilo, la strage di bambini di Sandy Hook? I tanti afroamericani disarmati e con le mani in alto che finiscono uccisi (impunemente) dalla polizia per motivi imperscrutabili? No, il problema dell’America è quello della generazione di «fighette» dei giovani d’oggi che grida continuamente al razzismo, la «Pussy Generation». Peccato che Clint Eastwood sia impegnato nel montaggio del suo film di prossima uscita, «Sully» con Tom Hanks, storia vera del pilota eroico che atterrò, dopo un’avaria, sulle acque del East River, perché altrimenti poteva strappare la nomination repubblicana a un’altra «celebrity» che odia il politicamente corretto. In realtà a Eastwood Trump non piace granché per le battute sui messicani, ma probabilmente lo voterà perché è meno peggio di Hillary e comunque l’America deve «farsi una ragione» del razzismo.
Appena è stato diffuso il testo dell’intervista del regista e attore a «Esquire» di settembre, i social media sono prevedibilmente esplosi – divisi come sempre in due fazioni, però con il fronte dei contrari assai più numeroso e indignato – ma è chiaro che la grinta dell’ispettore Callaghan non lo abbia abbandonato neanche adesso che ha 86 anni mirabilmente portati.
È un peccato che il servizio di copertina della rivista – che proprio in questi mesi verrà rilanciata come newsmagazine letterario dalla nuova direzione di Jay Fielden e Michael Hainey – verrà ricordato solo per le numerose invettive di Clint e per le polemiche che seguiranno. Peccato, si trattava di una bella occasione: la prima intervista congiunta con il figlio Scott, trent’anni, giovane attore molto lanciato («Suicide Squad», il prossimo «Fast & Furious») e a lui molto somigliante (anche se lo sguardo non è glaciale come quello di papà). Nelle belle fotografie scattate da Terry Richardson padre e figlio sorridono, scherzano, giocano a fare la lotta ed è evidente dagli sguardi il loro legame profondo dopo tanti anni decisamente poco sereni (Scott è nato da una relazione extraconiugale con una hostess e fino all’adolescenza ha usato il cognome materno e ha avuto pochissimi rapporti con il padre).
Nell’intervista papà Clint si scaglia anche contro i «cagasotto» che non sopporta e che vede dominare la società americana, lui che sta preparando il montaggio del suo nuovo film sul pilota-eroe che a lui piacerebbe vedere alla Casa Bianca, non Hillary Clinton «con quella voce, come si fa a starla a sentire per quattro anni», lei che «ha fatto una barca di soldi con la politica: io quando feci il sindaco (di Carmel, ndr) ce ne rimisi parecchi, di soldi», «lei che continuerà le politiche di Obama», il presidente che Eastwood odia e al quale dedicò un bizzarro siparietto in diretta tv alla convention repubblicana di quattro anni fa, Clint che parla con una sedia vuota sulla quale immaginava che ci fosse il presidente.
Peccato. Eastwood irride chi sottolinea il razzismo ancora presente nel 2016 con una nonchalance che ignora – o finge di ignorare – che quando era bambino lui i neri venivano ancora linciati, nel Sud, e ancora per decenni sarebbe stato loro impedito di frequentare le scuole dei bianchi, i loro ristoranti, le loro piscine. Certo, Eastwood si era presentato al mondo, mezzo secolo fa, come il pistolero dagli occhi di ghiaccio nel selvaggio West secondo Sergio Leone, e poi come l’ispettore Callaghan sempre pronto a brandire la 44 Magnum contro capelloni, balordi, criminali e sovversivi vari (spesso e volentieri afroamericani). Ma nel corso della sua vecchiaia luminosa, incoronata dagli Oscar e dalle ovazioni nei Festival del cinema europei, Eastwood si era evoluto, da idolo della destra non troppo illuminata a umanista sotto mentite spoglie: l’epopea revisionista del West de «Gli spietati» costruita non sui duelli e l’onore dei pistoleros ma sulle rivoltellate nella schiena, sugli agguati nelle latrine, con il monito quasi biblico che «quando uccidi un uomo gli togli tutto quello che ha, e quello che spera di avere». L’Eastwood dell’ultimo quarto di secolo è quello dell’orrore per gli abusi ai bambini di «Mystic River», dello struggente amore paterno e della dignità del fine vita di «Million Dollar Baby», della pietà per le vittime dello tsunami e la riflessione – da parte di un laico senza timidezze ma senza arroganza – su quel che c’è, o potrebbe esserci, oltre la vita («Hereafter»).
Peccato perché nell’intervista con Hainey, invettive a parte, Eastwood parla anche con franchezza e umanità delle scelte sbagliate fatte per la carriera, dei figli trascurati, del rapporto problematico con suo padre, e a un certo punto si commuove ricordando un aneddoto della sua infanzia durante la Grande depressione – un uomo affamato che si offrì, con infinita dignità, di spaccare la legna degli Eastwood in cambio di un panino perché rifiutava l’elemosina. Poi però in materia di «fighette» che secondo lui indeboliscono l’America aggiunge che «parlo delle fighette, non delle fighe, è un’altra cosa», e viene da rileggere quel passaggio sperando di aver capito male ma è proprio così, e ci rende un po’ meno ammirevole la vecchiaia dell’ex, ma non troppo, ispettore Callaghan.