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 2016  agosto 03 Mercoledì calendario

«Non pretendere di fare del bene ai continenti ma pensare alla salvezza individuale sarebbe già buona cosa». Intervista a Guido Ceronetti, tra cura della memoria e poche speranze per il futuro

«Un consiglio a chi non legge? Per carità, se vuole restare cretino, faccia pure», dice con la sua erre arrotata e l’accento da piemontese. Nessuno come Guido Ceronetti incarna la stravaganza dell’apocalittico, nessuno come lui osserva l’orlo del disastro con tanta compostezza e serenità. Traduttore e curatore eccelso dell’Ecclesiaste, del Libro di Giobbe, del Libro del profeta Isaia, scrittore, saggista, erudito, regista, autore e attore di teatro, questo omino ultraottantenne (il 24 agosto sono 89), con una strana aria da Lucifero sapiente, la voce lenta, il corpo fragile, piegato, parla rannicchiato sulla sedia di legno in cucina, davanti a una tazza di tè verde giapponese. Lo scorso inverno è caduto, si è rotto il femore e da allora si è rintanato nella casa di Cetona, «la malamata Cetona» come la chiama nel libro Per le strade della vergine (Adephi), il suo più recente lavoro editoriale, dove riordina la sua vita dal 1988 al 1998 come in un romanzo in tre periodi. Qui, tra i suoi diecimila volumi, non sembra affatto rassegnato alla sofferenza fisica, cerca con coraggio e accanimento di riprendersi. Si sveglia ogni mattina alle 6, scrive a mano fino alle 10, il pomeriggio si fa portare a passeggio dalla signora Tiziana, la sera beve sciroppo d’acero per riposare.
Che cosa sta scrivendo di nuovo?
«Quando ero in clinica per passare il tempo ho scritto un opuscolo che a Roberto Calasso dell’Adelphi è molto piaciuto e spero lo pubblichi. Si intitola Per non dimenticare la memoria perché come tutti sono uno che perde memoria, spesso a larghe fette e ne soffro. Allora ho fatto un lavoro e chi lo legge ne sarà beneficato: fornisco qualche esercizio, le poesie, per esempio, fa bene ricordarle. Foscolo, Baudelaire, Dante. E poi le vie, le canzoni. Le date che ho molto coltivato. Preservare la memoria dall’oblio è difendersi dall’assenza del pensiero che dilaga. Vedere questa umanità che viene su per godere solo di un mondo scempiato dai padri, priva di memoria storica, è una sensazione dolorosa. Non sanno più niente».
«Umanità segnata dal nulla» scrive degli studenti che escono da scuola in Le strade della vergine. Feroce.
«Ma mica solo i giovani. Loro hanno la e-memoria, la memoria elettronica. La battaglia di Waterloo? Quel 18 giugno 1815 vanno a cercarlo lì, su quegli aggeggi. Non hanno bisogno di ricordare. L’invenzione della tecnologia è stata una cosa devastante. E su questo sarei molto pessimista».
E sul resto?
«Nulla giustifica speranze. Il mondo unificato ci vuole incessantemente occupati di lui, e sono solo problemi e orrori. Quello che viene avanti è o questo nulla o l’Is che è la barbarie assoluta. Assoluta. Nel suo libro Esodo il mio amico Domenico Quirico dice che la speranza sono queste masse di disperati che arrivano da noi, una grande rivoluzione che porterà i suoi frutti, dice. Mi pare un’astrazione. Io la vedo come una catastrofe, per noi e per loro. È bello vedere tanti casi commoventi di gente che fa cose grandiose verso coloro che arrivano, ma non si può usare la bontà per 200 o 300 milioni di persone o un miliardo. Nessuno guarda alla bomba biologica. I dati ci dicono che in Africa, nei paesi musulmani, la questione demografica è impressionante. Non è che dopo 200 milioni il flusso finisce. Ma da noi c’è il dogma papale: dobbiamo accoglierli tutti, dice».
Non le piace papa Francesco?
«Preferivo Ratzinger, almeno voleva la messa in latino».
Lei ne fa anche una questione di difesa dei valori occidentali?
«L’unica civiltà che abbiamo potuto scavare nella belva umana, inventando messianicamente i diritti dell’uomo nel 1789, è questa. Qui almeno la legge, un qualcosa, l’abbiamo. Io penso che non pretendere di fare del bene a dei continenti ma pensare alla salvezza individuale sarebbe già una buona cosa, come insegna il Buddha».
In Per le strade della vergine lei lo cita spesso.
«La Bhagavadgita è il mio libro sacro (con la Bibbia, Sofocle, Shakespeare, Céline) perché lavora nella materia umana bruta, ma è inaccettabile quando fa l’antisemita. E ho molto amato anche Kant, però l’ho capito poco».
Come mai ha scritto un’autobiografia, che peraltro si interrompe nel 1998?
«Doveva essere un libro destinato a essere postumo. E a concludersi col secolo. Avevo un mucchio di taccuini ancora da rivedere. Se l’ho pubblicato è per bisogno. E non ho fatto in tempo a finirlo. Le cure costano, e io posso contare sul sostegno della Bacchelli e poco altro».
E il teatro? È ormai vicino al mezzo secolo di attività.
«Il teatro mi ossigena. È anima. Adesso ho un progetto di cui ho parlato con lo Stabile di Torino, anzi due. Un Macbeth per marionette, che ho fatto cinquanta volte ai primordi, nel 1970 quando mia moglie Erica Tedeschi e io cominciammo a mettere in scena per i nostri amici, a casa nei Castelli, degli spettacoli. Io davo voce ai personaggi fatti con le marionette prese a Natale in piazza Navona, Erica cantava. Poi nell’82, quando ci siamo separati, è finito il teatro d’appartamento e ho proseguito con il teatro di strada, fino a che il Piccolo non ci ha ospitato in sala. Mai stato uno sperimentale, e nemmeno fuori dalle convenzioni perché non ero preparato per quello. Ho fatto teatro da me».
E l’altro progetto?
«Una lettura danzata sulla Mantellata di Fontebranda, le lettere di Caterina da Siena».
Come mai?
«Sono capolavori come la Divina Commedia, che leggo da tempo immemorabile, perché ho la fortuna di avere i sei volumi dell’edizione di Piero Misciattelli. Mi ha attirato la lingua, come a suo tempo fu per la lingua biblica. Vertici della parola. Parole che sono strumenti sonori e pregnanza, parole che in me hanno risuonato nel loro misticismo».
L’amore per la parola sapienziale in lei ha un legame con l’interesse per il magico, l’occulto?
«Il magico mi attira, ma con il diavolo meglio essere cauti».
Perché? Crede nel diavolo?
«Credo nel principio del male, come i Catari. Il male alberga nella creazione che non è opera di un dio buono, ma di un dio che ci si è sforzati invano di rendere buono».
Un demiurgo cattivo invece del big bang iniziale?
«Mi avvicino di più al peccato originale come principio. Un giorno mia suocera stava cucinando, e mi chiese se secondo me c’è qualcosa dopo. Io le dissi, sì certamente. Cosa sia non lo so. Un po’ mi preoccupa e mi occupa. Mi ci sono avvicinato, dunque tra non molto saprò. Ma i morti che ho sognato, ho visto che sono ben sistemati. Liberarsi dal peso della vita deve essere una sensazione di una felicità incomparabile».